Tristan und Isolde a Bayreuth:
così lontano, così vicino
Il carattere sfuggente del Tristan wagneriano, già evidenziato da uno studioso del calibro di Carl Dahlhaus, elude le consuete categorie classificatorie risolvendosi in una drammaturgia evanescente, lontana dall'epos che si trova alla sua origine. Tutto si dilegua come in un sogno, all'interno del quale si muovono i protagonisti. Di questo carattere onirico la regista Katherina Wagner, autrice dello spettacolo presentato per la prima volta al Festival di Bayreuth nel 2015, è perfettamente consapevole. Per questo nel primo atto costruisce un universo geometrico debitore nei confronti di Escher, che pare misurarsi con i concetti stessi di spazio e d'infinito, e quindi con i misteri del tempo e dell'eternità. Tristano e Isotta aspirano sublimare il proprio amore nella morte, nell'annientamento del nulla cosmico. Il labirintico groviglio di scale e piani mobili, efficace sostituto visivo del vascello, è la metafora più adeguata ai tormenti dell'azione interiore. Sin dall'inizio i due amanti si cercano disperatamente, mentre i fidi Kurwenald e Brangäne tentano di impedire l'inevitabile. La passione da tempo li avvince, e il filtro altro non è che manifestazione teatrale di qualcosa che è già presente. Più forzata è apparsa la resa del secondo atto, con i protagonisti prigionieri di uno spazio cinto da alte mura. Carcerieri li osservano dall'alto, mentre un accigliato re Marke prepara la propria vendetta. Invano Kurwenald si dibatte per trovare una via di fuga. L'inesorabile destino viene esplicitato in maniera sin troppo didascalica. Il senso di claustrofobia mortifica le smisurate prospettive e i cromatismi lunari del duetto d'amore. Suggestivo il terzo atto, nuovamente giocato sul registro onirico. La mente di Tristan è preda di innumerevoli visioni. L'immagine fantasmatica di Isolde si sottrae continuamente, lasciandolo in balia dei propri incubi. Dal punto di vista musicale, superfluo sottolineare l'idiomaticità con la quale l'Orchestra del Festival di Bayreuth esegue questa musica. Christian Thielemann, dal canto suo, mostra un'urgenza comunicativa che a tratti ricorda la vibrante teatralità raggiunta da Karl Böhm nelle storiche recite del 1966. Del pari perfetta è la resa strumentale, l'istintiva e mai pedissequa ricerca del dettaglio. Il Tristan di Thielemann elude le ieratiche e maestose arcate ad esempio di un Furtwängler per modellare una narrazione dalla tempistica più mobile e spedita, appena screziata dalle nebbie del dissolvimento. “Wie lange fern! Wie fern so lang!”, dice Isolde nel grande duetto del secondo atto. “Wie weit so nah! So nah wie weit!”, le fa eco Tristan. E' proprio questo senso della vicinanza come lontananza e viceversa a trasparire evidente nella direzione di Thielemann, questo struggimento verso un desiderio inappagabile che trova compimento solo nella morte.
Il cast è di tutto rispetto. Stephen Gould appare oggi fra i pochi in grado di passare indenne le difficoltà di un ruolo impossibile come quello di Tristan. La voce è solida nei centri e squillante nell'acuto, e solo di rado cede a qualche inevitabile asprezza. Grazie a un'assidua frequentazione, dimostra inoltre di aver maturato a fondo il personaggio. Il suo è un Tristan lacerante e allucinato, preda di un delirio privo di prospettive catartiche. Gli sta accanto l'Isolde ben cantata di Petra Lang, solidissima al centro e appena un poco sfocata negli acuti estremi. Bravissima la Brangäne di Christa Mayer, voce dal timbro caldo e accattivante. Iain Paterson è un Kurwenald lontano dallo stereotipo del cavaliere spaccone e baldanzoso. Appare piuttosto fragile, vittima degli abissi di follia nei quali precipita Tristan. Pur senza possedere mezzi vocali enormi, fraseggia con morbidezza e apprezzabile musicalità, delineando una figura totalmente umana. Nell'impostazione registica re Marke è più vendicativo e sprezzante che doloroso e afflitto. Paludato in un cappotto con il collo di pelliccia che gli conferisce un aspetto da boss spietato, Georg Zeppenfeld staglia comunque un profilo di notevole spessore. In questa declinazione mancano però gli accenti commossi e trepidanti che Wagner consegna a Marke tanto nel finale secondo quanto nella parte conclusiva del terzo atto. Più che sufficiente Raimund Nolte come Melot, esile infine Tansel Akzeybek nel duplice ruolo del marinaio e del pastore.
Riccardo Cenci
25/8/2018
Le foto del servizio sono del Bayreuther Festspiele/Enrico Nawrath.
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