L'ombra di un riflesso
Assistere a una creazione di Wagner ha qualcosa di profondamente diverso da una serata di opera italiana. Innanzitutto il pubblico, accorso numerosissimo al Teatro Comunale di Bologna nella serata del 29 gennaio: un pubblico vario e di diverse età, austero e concentrato. Un'opera di Wagner, compresa l'attesa che la precede, i discorsi che si ascoltano nel foyer e gli abiti delle signore, porta con sé un'aura di spiritualità, e l'impressione è quella di assistere ad una liturgia. Tanto più a Bologna e alla Sala Bibiena, vero e proprio santuario italiano del compositore tedesco, poiché proprio qui, nel 1888, si tenne la prima italiana di Tristan und Isolde.
L'aspettativa, seppur stemperata dalle recensioni delle date precedenti lette qua e là, è grande, visto che gli elementi affinché la qualità dello spettacolo sia di altissimo livello ci sono tutti, a cominciare dalla direzione affidata all'attesissimo Juraj Valcuha, continuando con un cast di prim'ordine e concludendo con la scenografia a cura di un artista di fama mondiale.
La scena del primo atto è sontuosa e straniante, un gigantesco specchio allestito sul fondale in cui si riflette tutta la sala, mentre nel soffitto calano enormi stalattiti luminose, che continuano ad abbassarsi con un movimento impercettibile fino alla scena del filtro. Ricercatezza estetica e macchinosità. Proprio come il preludio, diretto magistralmente e iniziato solo quando il silenzio assoluto era calato in sala. L'orchestra emette suoni cristallini e si dota immediatamente di una splendida gamma di registri, colori, dinamiche, una macchina perfetta che ci conduce tra i vortici del Mare del Nord e dipana le trame intricate della partitura. La voce del Giovane Marinaio è una colonna che si staglia tra le onde, quella di Klodjan Kaçani, una voce stabile, chiara, che non teme l'assenza della musica e arriva diretta alle orecchie del pubblico. Già dalla prima scena si comprende la stretta connessione tra scenografia, disegno delle luci, costumi e regia – rispettivamente di Alexander Polzin, John Torres, Wojciech Dziedzic e Ralf Pleger – e la chiara volontà di dirigersi verso uno spettacolo che si mescoli con la musica in una matassa inestricabile, costruito su una gerarchia di elementi esclusivamente simbolici e allusivi, dai gesti ai costumi, alle complesse macchine sceniche. Ad esempio, la bizzarra e stilizzata tessitura di vele dalla quale è cinta Isolde nella prima scena, una sorta di estensione dell'abito che ci ricorda la nave con cui la irisch Kind attraversa il mare. L'imponente vocalità di Catherine Foster, di rara potenza, fa da contraltare alla rarefatta atmosfera musicale e scenica, conferendo alla protagonista una ieraticità, forse a tratti troppo calcata e poco dinamica sul piano gestuale, ma sicuramente capace di far brillare tutte le infinitesimali sfumature della parte, dalle note gravi e lunghe, agli accenti brevi e improvvisi, con un'agilità ed un'estensione degne di una grandissima professionista. Brangäne ha invece, nella voce e nella mimica di Ekaterina Gubanova, la metà nascosta di Isolde, un'estensione verso il mondo degli uomini per interpretazione, registro naturale, dinamica, una vocalità morbida ma non priva di solida struttura e colore caldo. L'ingresso di Bryan Register porta sul palco un Tristan trasognato e umano: tenore di grande sensibilità emotiva, soavità, inestinguibile energia vocale, riesce a infondere all'interpretazione grande stabilità – imprescindibile nel Tristan e comune a tutti i cantanti, vista la durata – incarnando perfettamente dal punto di vista vocale l'eroe romantico; leggermente fuori misura la presenza scenica, nella quale si coglie una certa rigidità mimica. Al contrario, il Kurvenal di Martin Gantner é dinamico e preciso, una voce chiarissima ma che mai sovrasta Tristano, creando una perfetta alchimia.
Ci piace pensare, e non saremo di sicuro i primi a farlo, che la musica di Wagner sia come un'immensa spiaggia, composta da infiniti granelli di sabbia, ognuno col proprio colore, la propria grandezza, la propria luminosità; o la sabbia di una clessidra, che scorre impercettibilmente e inesorabilmente, fino alla conclusione apparente. Così trascorrono fino al termine gli ottanta minuti del primo atto, con un moto continuo e nascosto che ha lentamente trasfigurato le strutture luminose simili a stalattiti, portandole dal soffitto a sfiorare quasi il palco, permettendo così ai protagonisti di interagire con esse. Con grande coerenza rispetto al registro generale della messinscena, gli ambienti previsti dal libretto vanno semplicemente immaginati. Non c'è alcun calice, non vi sono spade.
La lunga pausa che precede il secondo atto ci presenta un allestimento scenico diametralmente opposto: al posto dello specchio, vi è un fondale opaco, bianco, e le numerose sculture, moltiplicate dal riflesso, sono sostituite da un unico oggetto che campeggia al centro della scena, un enorme albero dalle fattezze zoomorfe. Questo solitario e imponente monumento alla complessità della musica, una foresta concentrata e fitta che i due protagonisti percorrono attraversandola e scalandola, è uno scrigno di soluzioni sceniche e registiche con cui il pubblico è condotto attraverso un susseguirsi di sorprese – un gruppo di danzatori, fino a quel momento perfettamente mimetizzato, fiorisce tra le fronde – movimenti e giochi di ombre. In questo mutevole ambiente si inseriscono, come ombre tra le ombre, le voci ad impasto denso ed arcano di Marke, Albert Dohmen, bravo nel caratterizzare il personaggio con movenze lente e nobili, e Melot, Tommaso Caramia.
Il preludio del terzo atto basterebbe a ripagare il biglietto dell'intero spettacolo: preciso, meraviglioso, magico al termine del quale ci vengono rapiti gli occhi e intrappolati – grande maestria scenografica – in un rettangolo di luce abbagliante che circonda il rettangolo del fondale. Da un punto di vista scenografico, le dinamiche del terzo atto non sono solo soluzioni artistiche e tecniche, ma più una sintesi formale e concettuale del primo e del secondo atto. Nel primo, riflesso, frontalità, attesa; nel secondo, tridimensionalità, proiezione, dinamismo. Nel terzo atto c'è un degno supporto visivo all'enorme iperbole che abbiamo costruito nella nostra mente fin dall'inizio e attraverso soluzioni tecniche che solo l'immediatezza del teatro può supportare, gli oggetti, le luci e gli interpreti si confondono, si sovrappongono, si moltiplicano per poi svanire. E nel fondale, l'ombra di un riflesso. O il riflesso di un ombra.
Giovanni Giacomelli
1/2/2020
Le foto del servizio sono di Rocco Casaluci.
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