Un'italiana decaffeinata
Per finire la movimentata stagione attuale la Scala offre tre titoli buffi di Rossini, La Callisto più un nuovo balletto, Madina, con Roberto Bolle, pur sempre con posti molto limitati, cosa che adesso è davvero difficile di capire.Il primo Rossini comico è questa Italiana in Algeri nello storico e giustamente celebre allestimento firmato dal compianto Jean-Pierre Ponnelle, curato adesso da Grischa Agaroff. Non lo trovo assolutamente nè invecchiato nè da archiviare come roba archeologica (com'è il parere di alcuni): è rispettoso dello sfavillante libretto di Anelli e l'azione è sempre fluida e agile. Forse alcuni ‘gags' (gli eunuchi, i ‘pappataci') risulteranno oggi ingenui, ma speriamo almeno che a nessuno passi per la testa dire che allestimento e opera sono politicamente scorretti (forse lo sarebbero se il tutto fosse stato scritto tre anni fa, ma come si sa ci sono persone che non capiscono queste differenze storiche. E' vero però che succede con queste regìe storiche che sono nate d'accordo con una direzione musicale concreta, e in questo caso nientemeno che quella di Claudio Abbado, e senza forse Ottavio Dantone non ha precisamente la stessa visione nè lo stesso spirito (dato che l'ho vista nella mia prima visita alla Scala nel lontano 1975 so di cosa parlo) e se non fosse bastata la versione della meravigliosa sinfonia come esempio di mancata freschezza e d'ironia ma anche di vivacità, in più di un volume che nel resto dell'opera mise in difficoltà qualche cantante, il momento finale della scena sesta del secondo atto (quella del caffè, per intenderci), e particolarmente l'assieme ‘Sento un fremito', risulta chiara mostra di quanto detto.
Purtroppo sul palcoscenico non si trovavano grandi motivi di allegria.
Carlo Lepore e Roberto De Candia erano praticamente ideali nei panni di Mustafà e Taddeo rispettivamente (il timbre del primo si è leggermente incrinato, mentre il secondo dovrebbe sempre fare questo tipo di ruoli e lasciare altri come il suo recente Marcello de La bohème al Liceu di Barcellona), seguiti da vicino dall'eccellente Haly di Giulio Mastrototaro. Corretta Svetlina Stoyanova (Zulma), e insufficiente (e non entriamo in dettagli) Enkeleda Kamani nel poco facile ruolo di Elvira.
La coppia di amanti (mezzosoprano e tenore) risultava tutt'al più discreta. Maxim Mironov ha sì tecnica e stile impeccabile, ma un timbro esangue e degli acuti strani, anche se sembra che non pochi lo trovino eccellente. Di sicuro ha una bella presenza e grande disinvolura scenica. Qualcosa di simile, in meno, si può anche dire della protagonista di Gaëlle Arquez, cantante discreta e anonima, per niente adatta al carattere e alla scrittura brillante d'Isabella (se si guardano gli ultimi nomi per non dire i più antichi nel ruolo viene da piangere): voce di dimensioni piuttosto modeste, dura e stridente negli acuti (‘Pensa alla patria' le presentava problemi e disagi anche nella coloratura) e gravi non troppo omogenei, riusciva solo a restituire -in parte- tutta la sensualità e la maliziosa astuzia di ‘Per lui che adoro', che resta comunque il suo momento più riuscito (lasciamo stare l'aria di sortita). Il nuevo maestro del coro, Alberto Malazzi, sembrava calcare le orme del suo illustre predecessore, ma mi riservo il giudizio definitivo dopo aver ascoltato altri titoloi. Il pubblico applaudiva con moderazione e con più calore per i saluti finali, dove c'è stata anche una parte che si manifestava poco soddisfatta della bacchetta del maestro.
Jorge Binaghi
23/9/2021
La foto del servizio è di Brescia e Amisano.
|