Una fine, due inizi, un ritorno
I due Foscari alla Fenice di Venezia
Una fine: quella della stagione lirica 2022-23, che alla Fenice di Venezia termina con I due Foscari. Un ritorno, perché il più veneziano dei titoli verdiani si rifà vivo in questo teatro dopo quarantasei anni di assenza: l'ultima volta che andò in scena qui, correva l'anno 1977, con un Bruson sulla cresta dell'onda. I Foscari si prendono così la rivincita di giocare in casa, dopo la première in differita al Teatro Argentina di Roma, il 3 novembre 1844 (curioso che a Venezia siano approdati per la prima volta nel '45 su una piazza minore, il Teatro Gallo in San Benedetto, e si siano visti aprire le porte della Fenice solo nel febbraio del '47). Verdi aveva provato a dirlo, alla dirigenza del Teatro, che si trattava di un soggetto «pieno di passione, e musicabilissimo» (lettera a Brenna, 04/07/1843); e glielo sottopone pure per esteso pochi giorni dopo: «[…] le invio il programma dei due Foscari. A me pare sogetto [sic] interressantissimo [ri-sic] e molto più simpatico della Catterina [ri-ri-sic]» (lettera al conte Mocenigo, Milano, 09/97/1843); ma prudentemente la dirigenza lo rifiuta, «perché involgono riguardi dovuti a famiglie viventi in Venezia quali sono le famiglie Loredano, e Barbarigo che potrebbero dolersi della figura odiosa che vi si farebbe fare ai loro antenati». Meglio non indispettire due famiglie proprietarie di due palchi del primo ordine del Teatro fin dalla sua apertura… E così, in quel fecondo 1844, la Fenice ebbe a marzo il suo Ernani e Roma i suoi Foscari a novembre.
Due inizi, perché, sia per Sebastiano Rolli sul podio, sia per Anastasia Bartoli come Lucrezia, si tratta di due debutti. Il primo è uno specialista di Verdi: durante la formazione, ne approfondisce la drammaturgia sotto la guida di Marcello Conati e Pierluigi Pietrobelli, e all'attivo ha già un ragguardevole numero di titoli del Bussetano, per non parlare della solida conoscenza di quel terreno preparatorio che sono i repertori di Rossini e Donizetti. Alla guida dell'Orchestra della Fenice, domenica 8 ottobre 2023, di cui si riferisce, dà dei Foscari una lettura corretta, intrigante, coi dovuti chiaroscuri; la concertazione è chiara, senza eccessive prevaricazioni sulle voci e con un buon grado di nitidezza nei passaggi cameristici, vedi il gioco di viola e violoncello solisti a inizio secondo atto, così come è chiaro che Rolli ami Verdi: cerchi però di controllare il suo amore raffrenando un poco l'irruenza delle percussioni, che in diversi punti, e non solo nel Finale ultimo, debordano oltre gli argini del buon gusto.
La seconda, la fiorentina Anastasia Bartoli – il cognome non tragga in inganno: figlia d'arte lo è, una Cecilia in famiglia ce l'ha, ma è la mamma Gasdia – affronta con ardore il ruolo di Lucrezia, forte di un timbro lucente, metallico, vibrante, dai risvolti tendenzialmente freddi, ma di un freddo che piace, una lama affilata di voce negli acuti che però all'opposto affonda con calore nel registro grave, come in Più non vive l'innocente, molto ben fatta. Pur debuttando in un ruolo non facile (ma quale ruolo è “facile” in senso assoluto? E su cosa si basa la presunta facilità di un ruolo “facile”? Si mediti…), la resa nel complesso è più che valida; nei gorgheggi e nelle fioriture si dimostra precisa e nitida; resta da regolare l'emissione degli acuti, che, specialmente nella prima parte della recita, forse per una padronanza non ancora completa, figurano come se fossero un po' “buttati” nell'alto del pentagramma, assieme all'irruenza interpretativa di una Contarini senza peli sulla lingua, con inevitabile, benché impercettibile, effetto di stridio (non se ne adonti, Bartoli: rasentiamo l'optimum). Restano nella memoria, tuttavia, le belle e fantasiose variazioni nella ripetizione della cabaletta O patrizi… tremate… l'Eterno e il raccoglimento di Tu al cui sguardo onnipossente, con cui stempera il furore delle altre scene.
Singolarmente in controtendenza rispetto alle altre fulgide prove di cui finora sono stato testimone, Francesco Meli descrive uno Jacopo Foscari sottotono. Il timbro è quello solito, bello e caldo, da tenore da melodramma italiano di metà Ottocento; la tecnica, anche questa, è al solito ferrea, di consumata esperienza, per di più messa al servizio di un ruolo che Meli conosce bene, avendolo interpretato più volte: il che accresce la pathos e il coinvolgimento tanto dell'interprete, quanto del pubblico, per non parlare, anche per lui, delle inventive variazioni nella ripetizione di Odio solo, ed odio atroce. Le dolenti note sono altre: si rileva infatti una certa stanchezza generale nella prestazione, un'instabilità forse di diaframma che si traduce in un'instabilità dell'emissione, a tratti discontinua, un'emissione non sempre in voce ma salvata in ogni caso dal mestiere più che rodato, acuti che arrivano spinti, nei quali si nota uno slancio volitivo ma forzato e non naturale.
Le soddisfazioni maggiori arrivano dal versante grave delle voci maschili. Riccardo Fassi è infatti uno Jacopo Loredano di lusso, dotato di strumento scuro, bronzeo, e dell'intelligenza per saperlo usare, dipingendo un personaggio negativo, freddo, senza scrupoli, ma che non esita a intervenire anche fisicamente per separare Foscari junior dalla moglie, in questo animando un po' la regia che soffre, come si dirà tra breve, di una certa staticità. Stella di prima grandezza è invece Luca Salsi, che si impone per interpretazione, forza espressiva e intensità di risorse vocali. Il fraseggio incisivo e la cavata di voce gli permettono di evidenziare tutte le sfumature del testo e del personaggio, del quale conosce a menadito i reconditi anfratti che gli fanno sottolineare ad arte le “parole sceniche” determinanti, tornendole e articolandole con estrema chiarezza, forte di ripetute riprese del ruolo negli anni (escludendo interpretazioni precedenti, si può risalire almeno fino a Trieste 2011 per un suo Francesco Foscari).
Complessivamente validi i comprimari, dove spicca la Pisana di Carlotta Vichi; voce invece un po' debole quella del Barbarigo di Marcello Nardis; bene per il Fante di Victor Hernan Godoy e per il Servo del Doge di Enzo Borghetti. Completa la recita l'ottimo Coro del Teatro, debitamente istruito da Alfonso Caiani.
La regia, di Grischa Asagaroff, si caratterizza per un impianto totalmente didascalico, tendente allo stilizzante. Non vi sono trasposizioni d'epoca: l'anno è il 1457 e la città è la Serenissima. Non vi sono nemmeno astrusi sottotesti da decifrare. Tutto bene, quindi? No. Come si accennava, l'impianto registico soffre di una staticità che dopo poche scene fa perdere d'interesse (è pur vero che l'opera stessa non prevede chissà quante e quali ambientazioni; d'altro canto è tratta da The two Foscari di Byron, una di quelle tipiche tragedie da leggere, più che da inscenare, e che quindi se ne infischiano dell'interesse “visivo” teatrale). Le scene, appunto, sono di Luigi Perego, come anche i costumi. Il fondo è fisso: una balaustra piuttosto in alto, nuvole bianche su cielo azzurro statiche, dipinte, due lampioni ai lati. Le luci, di Valerio Tiberi, descrivono nel tempo l'evolversi della vicenda dal mattino alla sera, forse in omaggio alle unità aristoteliche. Al centro della scena permane per tutta l'opera una grande torre che ruota su se stessa in virtù della piattaforma girevole su cui è collocata, mossa da comparse in soprabito nero lucido. La torre, o meglio il parallelepipedo, espone sui quattro lati un richiamo stilizzato per le varie ambientazioni: le mensole di una libreria, con tanto di suppellettili modello San Girolamo, leggi teschio, per le stanze del doge – lato che si apre per trasformarsi nella prigione del secondo atto –, vetrate, pareti di legno, la riproduzione della tomba di Francesco Foscari nella Basilica dei Frari. Soluzione sicuramente pratica che ovvia a più macchinosi cambi scena, ma che si gioca tutte le sue carte nel giro di poco. Un po' banale il leone alato proiettato con effetto diapositiva durante la scena della sentenza. I costumi tendono ad essere piuttosto convenzionali, con Lucrezia che passa dal rosso scarlatto del primo atto, al rosso con scialle nero nel secondo, al total black del terzo, simbolo evidente del cambiamento interiore; corno ducale e mantello beige obbligatorio per il doge, lungo cappotto color crema per Jacopo, i Dieci tutti in rosso. Caduta di stile invece per la festa mascherata dell'ultimo atto, dove i coristi e Loredano si muovono con in testa un copricapo a forma di dolfìn, il ferro di prua delle gondole, a mimare la regata che, non potendosi vedere, si deve solo immaginare. A poco valgono le coreografie, di Cristiano Colangelo, per variare la scena di Tace il vento, è quieta l'onda, la barcarola che già preannuncia il coro di spiriti della Giovanna d'Arco (il metro è simile: 6/8 qui, 3/8 là): i ballerini si impegnano e sono anche piacevoli da vedere, ma il balletto rimane un cameo di dinamismo in uno scenario ahimè sostanzialmente fisso. Ciò non impedisce tuttavia alla recita di avere successo e di vedersi tributati lunghi e convinti applausi.
Christian Speranza
11/10/2023