Il paradiso può attendere
Condannati al paradiso. Così Schönberg definiva quei musicisti austro-tedeschi (Zemlinsky, Korngold, Weill, Dessau, Krenek, Hindemith, lui stesso…) che sotto il nazismo espatriarono oltreoceano per motivi razziali o di mera incompatibilità estetico-politica, accolti a braccia aperte da un'America che seppe ben ripagarli anche finanziariamente: però al prezzo – inevitabile – d'un devastante sradicamento culturale. Né il fenomeno si limitò a compositori di lingua tedesca. Ecco allora Rachmaninov che, all'indomani della Rivoluzione d'ottobre, si ritrova compiaciuto e sperduto tra le mille luci di New York. Ed ecco Mario Castelnuovo-Tedesco, compositore di punta della generazione post-pizzettiana nonché allievo di Pizzetti stesso, costretto a fare le valigie dopo le leggi razziali del '38 e a trasformarsi, al pari del collega Korngold, da cesellato autore di musica colta a prolifico cuciniere di colonne sonore per la fabbrica hollywoodiana. Tale sgambetto della Storia non ha permesso un'autentica perlustrazione dell'arte di questo musicista. Il quale, a orrori decantati, dal paradiso tornò spesso, ma con passaporto americano in tasca, per chiudere definitivamente gli occhi, a trent'anni esatti dall'inizio dell'esilio, non nella natia Firenze ma a Beverly Hills. Il suo talento proteiforme (che, a tacere della parentesi cinematografica, lo fece spaziare dal teatro lirico alla musica corale, dal balletto alle composizioni pianistiche e a quelle per chitarra) resta un territorio ancora in gran parte inesplorato, forse davvero sviscerato solo sul versante chitarristico. E la riproposta a Jesi dell'operina “francese” Aucassin et Nicolette, concepita alla fine degli anni Dieci, poi composta proprio nel cruciale 1938, infine rappresentata nel dopoguerra (Maggio Musicale Fiorentino 1952), torna utile ad aprire uno spiraglio nuovo. O, chissà, a spianare la strada per ricognizioni future.
Operina, d'altronde, è definizione di comodo. «Cantafavola del XII secolo per una voce, qualche strumento e qualche marionetta», la definisce Castelnuovo-Tedesco in didascalia, ma la composizione, di veramente piccolo, ha ben poco. La durata non è inferiore a quella – poniamo – di Cavalleria rusticana o dei Pagliacci. L'organico, per quanto ridotto, consente una dialettica stratificatissima (quartetto d'archi, quattro legni, arpa e tromba). E il soprano solista, sorta di menestrello che dà voce a tutti i personaggi di questa chante fable medievale, ininterrottamente in scena per un'ora e venti, è costretto a un tale tour de force che l'esecuzione jesina ha preferito scorporare il ruolo in tre cantanti distinte.
La lunga gestazione non danneggiò la partitura. Aucassin et Nicolette dovette sembrare al suo autore, quando iniziò a vagheggiarlo, un progetto figlio del suo tempo (i soggetti medievali erano in voga, nel melodramma italiano dei primi lustri del Novecento), ma alla première del '52 tutto aveva assunto un sapore così retrò da apparire sperimentale: la fluidità melodica e la concisione lirica di Castelnuovo-Tedesco hanno una sapiente leggerezza da vanificare qualunque dualismo tra avanguardie e passatisti, mentre l'uso delle marionette insuffla un sapore (per utilizzare un termine all'epoca non ancora sdoganato) di “controcultura”. La profonda adesione della musica al francese arcaico del testo, d'altronde, non impedì al compositore una versione ritmica inglese per il mercato americano, poi andata in scena a metà degli anni Sessanta. E ora, nonostante le differenze sillabiche tra le due lingue non sia problema da poco, giunge anche la prima rappresentazione in italiano, realizzata ad hoc per il Festival Pergolesi Spontini della cittadina marchigiana.
Tutte queste “libertà” rispetto all'originale (nuova traduzione, tre cantanti al posto di una e, non ultime, marionette sostituite da videoproiezioni) costituiscono, piuttosto che un'infedeltà relativa, una morale assoluta: Aucassin et Nicolette ha la forza musicale e poetica dei classici. E come tutti i classici non teme – anzi, gradisce – riletture e adattamenti. Il regista Paul-Émile Fourny impagina dunque un eloquente campione di “teatro povero” postmoderno, grazie al minimale impianto scenico di Benito Leonori (un velatino dietro il quale gli strumentisti diventano una sorta di grande silhouette, lanterne magiche al proscenio, sagome proiettate che sono un esplicito omaggio al segno grafico di Lele Luzzati) e alla triplicazione del personaggio solista, che consente – assieme alla presenza di due bambine, al tempo stesso mute testimoni e serve di scena – discreta movimentazione a un testo di per sé statico-cameristico.
Diretto per l'occasione da Flavio Emilio Scogna, il neonato Time Machine Ensemble (un pugno di giovani solisti che il festival jesino destina alla musica contemporanea o alla riscoperta dei grandi dimenticati del Novecento) restituisce con giusta idiomaticità la scorrevolezza del mondo sonoro di Castelnuovo-Tedesco. E le tre cantanti appaiono di valore diseguale perché eterogenee, nonostante l'interprete unico originariamente concepito, risultano le portate dei loro impegni: certe asperità non risolte di Chiara Ersilia Trapani sono figlie di una scrittura vocale (quella del primo quadro) ai limiti del proibitivo; gli affondi più gravi del secondo tableau hanno indotto a una scelta – Martina Rinaldi – in chiave mezzosopranile; e la maggiore levigatezza di Evgenia Chislova deriva pure dall'aver avuto in affidamento i momenti più cantabili.
Insomma, un gioiellino da riscoprire. Peccato che tutto si sia consumato in una serata sola, e neppure a teatro troppo pieno.
Paolo Patrizi
3/9/2019
La foto del servizio è di Binci.
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