Juditha Triumphans
alla Fenice di Venezia
Al Teatro La Fenice di Venezia è stato rappresentato in forma scenica l'oratorio militare sacro Juditha Triumphans Devicta Holofernis Barbarie di Antonio Vivaldi. È la seconda volta che la composizione è rappresentata a Venezia sempre in forma scenica, la prima fu nel 1958 nella revisione di musicale di Vito Frazzi e diretto da Renato Fasano. Quasi tutti gli oratori sono adattabili alla forma scenica, poiché la drammaturgia è sviluppata nella tipica forma dell'opera. La prassi vorrebbe che l'esecuzione fosse in forma concertante, ma a mio avviso è molto più suggestiva la realizzazione teatrale, bene ha fatto dunque il direttore artistico della Fenice, Fortunato Ortombina, a programmare lo spettacolo. Juditha è uno spartito “di propaganda” come ben evidenziato nel programma di sala da Tarciso Balbo. Nel 1716 la Repubblica Veneziana era nuovamente in guerra con turchi, conflitto che vide vittoriosi i veneti con l'aiuto dell'Impero Asburgico. La musica a Venezia era uno strumento portante della cultura e pertanto anche il più autorevole compositore del tempo contribuisce allo sforzo bellico con un oratorio in latino che tratta le vicende della biblica Giuditta che seduce il condottiero assiro Oloferne decapitandolo nel sonno, e in tal modo riesce a liberare la città israelita di Betulia. Il soggetto non era nuovo a composizioni operistiche ed oratoriali, prima di Vivaldi si erano adoperati Marc'Antonio Ziani, Alessandro Scarlatti, dopo Nicolò Jommelli e Wolfgang Amadeus Mozart. Il pubblico di Venezia che nel 1716 assistette alla prima rappresentazione di Juditha nella Chiesa della Pietà, sede delle “Figlie di Choro dell'Ospedale della Pietà” e per loro composta, coglieva da subito il parallelismo tra i personaggi della vicenda rappresentata e le fazioni nella guerra reale tra turchi e veneziani. Come citato nel poemetto allegorico posto alla fine del libretto Giuditta rappresenta Venezia, Oloferne il sultano di Costantinopoli, Ambra (ancella di Giuditta) e Vagaus (servo eunuco di Oloferne) incarnano rispettivamente la fede e il comandante delle truppe turche. Betulia rappresenta la Chiesa, Ozias il sommo pontefice e il coro delle vergini la cristianità. Esiste un solo manoscritto superstite dell'oratorio, conservato nel Fondo Foà della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, nel quale manca una sinfonia introduttiva, riportando invece due versioni alternative per le arie di Vagaus. Vivaldi in questa composizione utilizza un ensemble strumentale grandioso e che al tempo costituiva orgoglio per l'ospedale della Pietà. Sono presenti trombe e timpani che evidenziano il tono militare, oltre ai consueti archi e fiati, una viola ‘amore (strumento ricercato al tempo), tiorbe, cembalo, salmoè (strumento ad ancia simile al clarinetto), un mandolino solista, due claeren, (prototipo di clarinetto da suono aspro) e cinque viole “all'inglese” (simili alla viola d'amore con l'aggiunta di corde di risonanza).
L'allestimento ideato dalla regista Elena Barbalich è stato efficace nella sua semplicità, soprattutto nel cercare una pulizia drammaturgica con movenze classiche rivisitate su molteplici citazioni pittoriche. Più efficace e coinvolgente la seconda parte, mentre nella prima si denotava una sostanziale staticità. Tuttavia il lavoro della regista è rilevante anche per aver voluto imprimere una dimensione evocativa, sovente sottolineata con bellissime luci, ottimo in tal senso l'apporto di Fabio Berettin. Come dalla stessa Barbalich scritto nelle note la contrapposizione tra mondo Cristiano e quello infedele turco non è completato per non creare possibili riferimenti alla drammatica attualità delle guerre di religione. Scelta opinabile e non del tutto condivisibile, ma comprendiamo il gesto di non voler gettare “benzina sul fuoco”. Lo scenografo Massimo Cecchetto ha creato una scena fissa, di ambientazione astratta ma efficacemente aiutata da variegati fasci di luci. Ai lati delle passerelle che fanno da cassa armonica all'orchestra, la quale è posta al livello della platea come di consuetudine nel ‘700. Anche i costumi di Tommaso Lagottolla sono ispirati al classicismo e denotano fine mano sartoriale con colori appropriati.
Il direttore Alessandro De Marchi ha diretto con mano anche pertinente e filologica ma preferendo tempi lenti in un taglio drammatico pomposo ed equilibrato piuttosto che privilegiare la strumentazione barocca. Ha aggiunto una sinfonia per ricostruire la struttura originale, pur non avendo a disposizione uno spartito completo, ma come è noto sovente gli autori attingevano a propri lavori precedenti inserendoli nelle nuove composizioni. L'orchestra della Fenice, che in questi anni è migliorata molto, è ancora acerba per la scrittura barocca, infatti abbiamo udito soventi stonature e una linea orchestrale molto discutibile ai giorni nostri, avrebbero dovuto implementarsi con strumentisti più consoni al repertorio. Il coro femminile ha fornito una prova più che onorevole. Protagonista era Manuela Custer, la quale presumo non sia stata in particolare serata di grazia. L'artista che conosco da anni era quasi irriconoscibile in un canto non stilizzato e con suoni gravi marcatamente forzati. Validissima dal punto di vista interpretativo, spero sia stato un momentaneo periodo non felice vocalmente. Teresa Iervolino, Holofernes, si disimpegnava sufficientemente ma dovrebbe trovare più armonia nei colori. Vera trionfatrice della serata è stata Paola Gardina, Vagaus, che attraverso la sua duttile voce, tutta omogenea nei registri, e una solida tecnica vocale nelle agilità, ha disegnato un personaggio superlativo, e nell'aria “Armatae face et anguibus” ha ottenuto un meritato trionfo. Precisa e musicale l'Abra di Giulia Semenzato mentre ha destato qualche perplessità la voce intubata e non perfettamente appoggiata di Francesca Ascioti che interpretava Ozias. Teatro esaurito in ogni ordine di posto e successo pieno al termine delle due ore e mezzo di rappresentazione.
Lukas Franceschini
9/7/2015
La foto del servizio è di Michele Crosera.
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