L'oscuro eterno femminino
Medea: maga, amante, madre assassina dei propri figli, un mito che rotola su se stesso da secoli e secoli, raccogliendo sul suo cammino ogni suggestione storica, sociologica, esistenziale, stimolando la fantasia di poeti, narratori e musicisti, sempre uguale a se stesso e sempre diverso. Un mito che ancor oggi desta disagio e al tempo stesso una sorta di strana fascinazione, che infonde una paura alla quale si mescola la curiosità di indagare più a fondo la mente e i pensieri di questa ancestrale figura di donna, nella quale Euripide racchiuse la quintessenza della pericolosità dell'elemento femminile, ancor più temibile quando incarnato in una donna barbara. Con l'infanticidio, Medea si vendica del fedifrago Giasone condannandolo di fatto a vivere nel rimorso per un crimine del quale lui è, a ben vedere, il vero responsabile morale. Fino a questo punto, la focalizzazione di Medea si basa sul vortice di follia che conduce la maga della Colchide (nipote di Circe, altra inquietante figura femminile) a uccidere i propri figli dopo essersi sbarazzata della rivale Creusa: ma cosa sarebbe potuto accadere a Medea dopo il suo crimine non è mai stato indagato a fondo, né psicologicamente, né da un punto di vista teatrale o narrativo. Ogni rappresentazione del mito si conclude con la maga che fugge da Corinto, e solo qualche altra fonte classica parla di un secondo matrimonio di Medea con Egeo, dal quale sarebbe nato un figlio, Medo, eponimo del popolo dei Medi.
L'originalità di Medea Kali, intenso atto unico di Laurent Gaudé, romanziere e drammaturgo francese, classe 1972, vincitore nel 2004 del prestigioso premio Goncourt, si basa proprio su questa indagine del personaggio di Medea, sulle reazioni della donna al rimorso per il crimine commesso, proponendo al tempo stesso un'originale rielaborazione del mito in questione, che viene connesso esplicitamente all'Oriente e a un passato ancor più lontano, più ancestrale rispetto a quello greco, facendo sì che Medea non solo diventi una figura primordiale, ma identificandola con un altro terribile personaggio femminile da sempre identificato con la morte e la distruzione: la dea Kali.
Il lavoro, scritto nel 2003, prodotto da Teatro Libero Palermo e proposto al Piccolo Teatro di Catania il 23 e il 24 novembre nella traduzione di Beno Mazzone, che ne ha curato anche la regia, è un lungo monologo della maga, che ripercorre la propria nascita sulle rive del Gange, l'ebbrezza della danza orgiastica che la fa divenire dea datrice di vita e di morte a un tempo, l'incontro con Giasone sino all'assassinio dei figli. Ma è qui che la rielaborazione di Gaudè, già originale per l'aver legato strettamente Oriente e Occidente in un mito molto più pregnante e denso di simbolismi, si distacca da ogni altra versione del mito e della trattazione del personaggio: Medea è una donna dalla sensualità ferina, ma perseguitata dai fantasmi dei figli, presenti sulla scena sotto forma di voci che descrivono la ferocia della madre e la sua profonda crudeltà, preda di un delirio erotico e di onnipotenza dove la sua originaria ferita d'amore si mischia a un odio ancor vivo, inestinguibile, al quale la maga cerca, ma sa che non troverà, pace. Medea è seguita da un'ombra enigmatica: un uomo bellissimo, che sembra non aver paura del suo sguardo, dello sguardo che pietrifica. Pian piano prende forma un'altra cassa di risonanza inedita: Medea è anche Medusa, che un esile filone della tradizione vorrebbe sacerdotessa violata da un profano e per questo divenuta un mostro dallo sguardo pietrificante. Figure femminili cui l'elemento maschile ha tolto per sempre la pace, che cercano forse di fuggire al proprio fato, o che gli vanno incontro, come la Medea di Gaudè, che infine si volge verso Perseo e si lascia, ancora una volta, decapitare da lui.
Sulla scena nuda, resa mutevole solo dal magistrale gioco di luci di Gabriele Circo e Fiorenza Dado, arricchito dalle musiche di Antonio Guida, Medea, impersonata da Viviana Lombardo, si muove sinuosa nel suo fastoso abito orientale nero, interrotta qua e là dalle voci dei figli, affidate ad Alessandro Vella: la protagonista usa il suo corpo come uno strumento, rendendolo parte visiva e integrante del copione, affidandosi a esso per delineare tutta la sensualità primigenia di Kali prima che di Medea, lasciando poi che la voce tratteggi l'odio della maga, il suo amore ferito, il suo rimorso di madre, la coscienza di andare incontro e volontariamente a un destino ineluttabile, quello che, in fin dei conti, oggi come ieri, attende il diverso, il barbarico, l'elemento perturbante. Una notevole prova attoriale, quella della Lombardo, che è riuscita, con la sua ottima dizione e un sapiente uso della voce, a rendere davvero avvincente il monologo, permettendo alla inedita versione di Medea di emergere in tutte le sue sfaccettature.
Giuliana Cutore
26/11/2019
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