RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Credi poco, impara assai, punta men che vincerai…

Tanti anni fa, quando studiavo pianoforte, la mia insegnante era solita mettermi in guardia contro i rischi di scegliere pezzi troppo noti e suonati da grandi interpreti: riteneva infatti che, a meno di non essere un vero fuoriclasse, si andasse incontro a inconvenienti di varia natura, ivi compreso quello di essere bocciati all'esame, dati i naturali paragoni con esecuzioni molto note, molto famose. L'insegnante suddetta non era certo una cima, tanto è vero che dopo qualche esame mi stufai definitivamente del pianoforte e volsi i miei interessi altrove; tuttavia, questa elementare regola di buon senso mi è rimasta impressa, e ancor oggi non posso fare a meno di considerarla una norma di prudenza per registi, attori, cantanti et similia che, senza essere appunto fuoriclasse, si ostinano a confrontarsi con ruoli od opere generalmente inadatti alle loro effettive doti.

Re Lear è senz'altro una delle tragedie più famose e rappresentate di Shakespeare, e vanta registi e attori di grandissima caratura nel corso dei secoli: basti ricordare Ernesto Rossi, Gustavo Salvini, Ermete Novelli, Tino Buazzelli, Tino Carraro, Giorgio Strehler, Salvo Randone, Franco Branciaroli, solo per citarne alcuni. Dunque, un regista che oggi voglia cimentarsi con tale opera, è necessariamente conscio di correre un rischio notevole, nello specifico o di non dire nulla di nuovo o peggio ancora di fornire una prova mediocre, artificiosa e talvolta gratuitamente arbitraria. Ciò naturalmente non significa che la paura debba paralizzare tale scelta, o che il critico debba valutare la prova più o meno come certi vedovi Callas che ad ogni recita di Norma arricciano comunque il naso perché hanno nelle orecchie solo e soltanto la voce della Divina; significa solo che la valutazione dovrà comunque tener conto di tutta una storia teatrale all'interno della quale è comunque veramente difficile offrire qualcosa di validamente nuovo.

Ciò detto, passiamo senz'altro a dar conto della prima di Lear la storia, andato in scena al Verga di Catania il 1° aprile, con repliche fino al 17, per la regia di Giuseppe Dipasquale e con Mariano Rigillo nel ruolo eponimo. Partiamo dal titolo, Lear la storia: il programma di sala avvertiva che la traduzione era di Masolino D'Amico e l'adattamento dello stesso Dipasquale. L'idea registica di base è quella di Lear esprimente le due facce, il bene e il male di una irrisolta divinità, “un ossimoro vivente”. Benissimo: la catarsi, comunque non obbligatoria vista l'assoluta lontananza del Bardo dai canoni aristotelici, si attuerebbe nello svolgersi della follia che lo prenderà, da un'iniziale e ostentata regalità, passando per il condividere la miseria degli ultimi diseredati, fino alla morte dell'adorata Cordelia e alla sua stessa fine. Fino a qui potrebbe trattarsi di un'interpretazione un po' riduttiva, dove il tema del potere, più consono a Macbeth o a Riccardo III, è amplificato rispetto a quello della vicenda squisitamente umana del re: il problema però è che Lear cede il suo potere, per vecchiaia, per amore delle figlie, per istinto di teatralità, ma comunque lo cede, autoconfinandosi al ruolo di padre, che sarà quello su cui si giocherà tutta la tragedia. Anche i rimbrotti del Matto saranno giocati su questo tema, sulla vecchiaia priva di saggezza, sulla scarsa conoscenza del cuore umano, e non sulla perdita della regalità, che diventa, nel copione shakesperiano, un problema via via più marginale col proseguire della tragedia verso la catastrofe finale.

Secondariamente, sempre nelle note di regia, viene avanzata l'idea che la divisione del regno afferisca ad una “patriarcale partenogenesi del potere”; a parte che non si capisce bene a che proposito ciò venga detto, visto che Lear non è né vergine né donna, né nulla che abbia a che fare con una filiazione partenogenetica, questo assunto viene reso possibile, nel testo messo in scena da Dipasquale, a prezzo di una decurtazione di personaggi quanto mai opinabile e gratuita. Regana e Goneril, sorelle di Cordelia, hanno infatti due mariti, il duca di Cornovaglia e il duca d'Albania, che nel testo shakespeariano porteranno avanti materialmente la cacciata di Lear, l'accecamento di Gloucester e la guerra col re di Francia, mentre alle loro consorti rimarrà solo la parte più strettamente filiale dell'ingratitudine. Dunque, questa partenogenesi risulta quantomeno opinabile e forzata.

Ma veniamo a Regana e Goneril, che Dipasquale affida a due attori, Luigi Tabita e Roberto Pappalardo: oltre alla scarsa verosimiglianza di due uomini paludati in abiti femminili, scollacciati e con orecchini, ma con stivaloni e calzoni messi in evidenza da vestiti aperti sul davanti, le loro battute diventano un coacervo di quelle proprie e dei rispettivi consorti, depennati, col risultato di due fantocci guerrieri, ma civettuoli, che si aggirano per il palcoscenico un po' virili un po' femminei a convenienza, e francamente inguardabili nelle scene amorose con Edmund, il bastardo di Gloucester, uno dei protagonisti della trama secondaria. Inoltre, anche i personaggi in quanto tali vengono svisati e travisati, perché la tentata tresca con Edmund non si configura più, come voleva Shakespeare, come un mezzo adulterio e un ulteriore approfondimento del carattere delle due sorelle, ma come un rapporto privo di complicazioni anche dinastiche, data l'assenza sulla scena dei consorti. Insomma, da un lato si riduce, privando la tragedia di personaggi con una funzione teatrale ben definita, dall'altro si sfasa tutta la dinamica guerriera che fa da sfondo alla vicenda di Lear, e questo pur avendo messo in primo piano la succitata “partenogenesi del potere”.

Né gli interventi registici si limitano a questo: conseguentemente al taglio dei personaggi, sono state naturalmente eliminate parecchie scene, spostando ancor di più l'accento sulle due sorelle, di fatto pressoché onnipresenti, con gli attori costretti a recitare en travesti, incredibili, per non dire comici, nei duetti con Edmund, ai quali si alternavano scene di ferocia (l'accecamento di Gloucester), e altre amenità, specie negli scambi tra Goneril e Osvaldo.

E veniamo al Matto, interpretato da Anna Teresa Rossini: il ruolo è stato spesso affidato a donne, e tutto sommato ricalca una tradizione ormai consolidata, ma con numerose eccezioni. Il vero problema era il taglio dato al Matto, inopinatamente abbigliato e truccato come Gelsomina ne La Strada di Fellini: il Matto è la voce della coscienza di Lear, un po' il suo alter ego, ma anche il personaggio che può dir tutto e incitare lo spettatore a riflettere. Punteggia e commenta la tragedia, ma non è un buffone: è ironico, sarcastico, ma è anche amaro, ammonisce e pronuncia grandi verità in punta di piedi. Tutte sfumature mancanti alla Rossini, che ha svolto solo l'aspetto giullaresco, con una recitazione monocorde, incline ad un andamento buffonesco anche nelle movenze, a tratti più da burattino che da Matto.

Inoltre, le musiche di Germano Mazzocchetti, abbastanza inadeguate e sin troppo roboanti, quando non ammiccanti alla Paramount o alla Metro Goldwin Mayer, hanno spesso sovrastato, in particolare quando è in scena il Matto, le voci degli attori, il che, unito al generale vezzo di recitare senza grandi pause e con fretta ossessiva, ha più volte nuociuto alla comprensione di un testo denso di metafore e ipotattico quale quello di Shakespeare. Certo Dipasquale ha voluto sottolineare con un commento musicale un testo già sin troppo significante per se stesso, a patto che si riesca ad ascoltarlo…

Ultimo aspetto, non di poco conto, è stato il trattamento della vicenda secondaria di Gloucester, interpretato dal bravo Sebastiano Tringali, e dei suoi figli, il bastardo Edmund, un David Coco talvolta sopra le righe, e Edgar, al quale Giorgio Musumeci ha prestato notevoli abilità espressive, unite a un buon uso della voce e ad una dizione chiara e scandita. Dipasquale ha di fatto tagliato la scena iniziale della tragedia, un dialogo tra Gloucester e Kent, di cui Filippo Brazzaventre ha fornito un'interpretazione pacata, misurata, con giuste pause e priva di forzature, dialogo che nel testo shakespeariano doveva ben marcare il carattere di vicenda parallela a quella di Lear, col risultato di catapultare ex abrupto sul palcoscenico Edmund e il suo racconto senza l'adeguata preparazione voluta dall'autore. Questo, unito alle sorelle androgine, ha reso abbastanza sconnesso il personaggio, rendendolo privo di quella profonda pervicacia del male, scardinata dal barlume di pentimento finale, che l'avrebbe reso molto più pregnante e incisivo.

Infine, Mariano Rigillo, pur confermando le sue doti attoriali e una notevole scuola, non ha convinto fino in fondo: il suo Lear, infuso più di isteria regale che di regalità, non è riuscito in tutta la prima parte a trovare gli accenti giusti, né nei dialoghi con le figlie, né nei duetti col Matto. Se gli mancava la possanza di un Buazzelli o di un Carraro, non riusciva a integrarla né col cesello della parola, né con l'uso della voce, limitandosi ad una gamma espressiva molto ristretta, cui a tratti nuoceva una dizione frettolosa e confusa. Molte battute sono state dissipate più che recitate, prive delle dovute pause, né il gesto riusciva ad avvincere né a scolpire più di tanto il personaggio. Il suo re Lear sembrava, specie nella scena della tempesta, più un vecchio atterrito che un padre fulminato dalla presa di coscienza del suo terribile errore. Molto meglio invece le scene con Edgardo nei panni del povero Tom, dove è riuscito a trovare accenti di tenerezza e di compartecipazione, e soprattutto il finale, con Cordelia (Silvia Siravo) morta tra le braccia, dove la vena elegiaca e intimista di Rigillo ha scolpito un momento di rara efficacia in cui tutto il dolore paterno dell'infelice re ha trovato espressione nella voce e nel gesto di un attore comunque di ottimo livello.

Giuliana Cutore

2/4/2016

Le foto del servizio sono di Antonio Parrinello.