La liturgia dell'arte
La Sala Futura, piccolo teatro da qualche tempo acquisito dal Teatro Stabile di Catania per ospitare una stagione in certo senso alternativa e più specificamente d'essai rispetto a quella della Sala Verga, ha proposto, come titolo fuori abbonamento della stagione 2024-2025, il testo teatrale vincitore del bando drammaturgia 2023, dal titolo Clinica, ovvero i primi nove venerdì del mese di Valeria La Bua, atto unico denso di rimandi intertestuali e cinematografici, spazianti dai più inquietanti racconti di Buzzati a certe satire mediche di Bulgakov, da echi inespressi del dramma della protagonista de Il curioso caso di Benjamin Button (la ballerina condannata da un incidente a chiudere per sempre con la sua arte), ma con una polemica contaminazione mistico-religiosa che tenta con successo di avvicinare l'esperienza del performer (sia esso danzatore, cantante, strumentista, o anche sportivo) a quella del religioso o del santo.
A ben vedere, chiunque decida di consacrare l'esistenza a un'attività fisica che impone sempre di portare il corpo al di là dei propri limiti, rinuncia in modo più o meno esplicito a quella feconda dialettica tra fisicità e spiritualità (quest'ultima intesa come la somma di tutte le attività mentali, pulsionali e volitive) che costituisce di fatto l'essenza dell'essere umano, più o meno come il religioso rinuncia alla propria fisicità per votarsi in toto alla spiritualità. In tal senso acquista una nuova luce il titolo del lavoro, che punta sia sulla clinica come luogo dove viene curato il corpo, sia ai primi venerdì del mese , prassi religiosa volta a ottenere una simbiosi con Cristo attraverso speciali pratiche devozionali. La vicenda di Sara, la ballerina che un incidente condanna a non poter mai più danzare, e che dovrà percorrere una via crucis di interventi chirurgici, punteggiati e resi più dolorosi dall'indifferenza di infermieri, medici e congiunti, fidanzato e genitori concreti e perbenisti e appunto per questo privi di qualsiasi empatia, viene sin dall'inizio messa in stretta relazione con l'infanzia della ragazza trascorsa in un istituto di suore, dove le pratiche mistico-mortificatorie le additano già la necessità di spezzare l'unità corpo-mente, necessità che si concreta visivamente nel sanguinante cuore di Gesù che la ragazza si chiede come possa stare, e come oggetto di adorazione, fuori dal corpo. Unità umana spezzata dalla fede o dalla devozione all'arte, poco importa: si tratta di due percorsi egualmente disumani, di due salti nel buio basati su una scommessa di pascaliana memoria, sulla speranza che alla fine si ottenga qualcosa, magari una ricompensa, si tratti della santità o della celebrità.
Su questa problematica squisitamente esistenziale, Valeria La Bua ha costruito un testo profondamente sofferto, dove gli echi autobiografici si stemperano in spunti comici, in malcelate invettive contro il perbenismo familiare e sociale, offrendo al pubblico un testo che pone molte più domande di quelle espresse dalla rabbia e dalla disperazione della protagonista. La mise en espace di Marta Cirello è riuscita con pochi elementi di grande suggestione, a metà tra l'onirico e il grottesco, a esplicitare le possibilità sceniche insite nel testo, con un occhio alla didatticità brechtiana che spezzava continuamente la mimesis con gli attori che cambiavano abiti in scena, con la scarna attrezzeria dotata di camaleontica funzionalità, con espedienti fonici inquietanti e comici allo stesso tempo (la maschera bicefala dei genitori di Sara, vero mostro parlante carico di angosciosa pervasività), ma soprattutto col magistrale disegno luci di Gaetano La Mela, i cui tagli netti e impietosi hanno immerso il pubblico in un'atmosfera surreale che sottolineava ostensivamente la simbolicità di quel che accadeva sul palcoscenico.
Maddalena Serratore, cui era stato affidato il personaggio di Sara, ha reso con estremo pathos il dramma della giovane danzatrice ostinata oltre i limiti umani, che spera, soffre e si dilania nell'attesa di poter finalmente giungere all'audizione che potrebbe segnare il punto di svolta della sua vita, tormentata da un fidanzato troppo concreto (o forse troppo umano) per comprenderla, e da due genitori dotati solo di un folle e criminale egoismo: dotata di ottima espressività corporea e di buona dizione, ha dato vita a un'interpretazione coinvolgente e coinvolta fino al monologo finale, vera esplosione di protesta cosmica troppo rattenuta, dove il controllo attoriale ha ceduto a un fiume di pathos dilagante.
Valerio Santi, impegnato in una serie di ruoli quanto mai difformi tra loro, che spaziavano dal fidanzato belloccio e concreto alla suora bonacciona dalla fede naïf, passando per l'infermiere indifferente al medico mezzo incosciente e abbrutito dal suo mestiere, ha dato prova di una estrema versatilità ma anche di un totale controllo dei suoi mezzi di espressione, sia corporei che fonici, con una mimica polimorfa che riusciva a trasformarlo completamente nel passaggio da un personaggio all'altro, rendendoli tutti credibili e naturali, cosa che ha senz'altro contribuito in misura notevole alla riuscita dello spettacolo.
Repliche fino a domenica 20 ottobre.
Giuliana Cutore
18/10/2024