RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Nel volto estatico di questo e quello…

 

Ci si dovrà arrendere, prima o poi, all'evidenza dei numeri: La Cenerentola ossia La bontà in trionfo, oggetto di rinnovate attenzioni grazie alla Rossini Renaissance del Dopoguerra, sta diventando il titolo più eseguito del compositore pesarese. Con l'approssimarsi del secondo centenario della prima rappresentazione dell'opera (Roma, Teatro Valle, 25 gennaio 1817), in tutti i teatri del mondo è un autentico fiorire del dramma giocoso cavato – tra l'altro – dalla fiaba di Charles Perrault: una fortuna sulla quale converrà forse interrogarsi, anche alla luce delle trionfali recite, non ancora concluse al Teatro Massimo di Palermo.

Spira, nel capolavoro di Rossini e di Jacopo Ferretti, un clima di paciosa intimità borghese, un incontenibile desiderio di happy ending da «storiella accanto al fuoco», un perenne sorriso che non elude o sottace – tutt'altro! – le difficoltà della vita, ma tutto sintetizza e riassume nell'irresistibile vittoria del bene sul male, di una bontà che finisce per trionfare su una cattiveria – quella del patrigno e delle sorellastre – su cui è meglio ironizzare, piuttosto che condannare. E questa costante, affascinante medietas tra buffo e serio, che neanche si avvicina agli intrecci semiseri ma si limita a sciogliere uno gliuommero viepiù avviluppato, garantisce un equilibrio di rara perfezione, ancora oggi capace di incantare grandi e piccini, spettatori entusiasti di una materia affettuosa, tenera, coinvolgente.

Lo spettacolo palermitano fa affidamento su parecchie frecce, puntualmente scoccate per fare centro: a cominciare dal team chiamato a realizzare la parte visiva, capitanato da Giorgio Barberio Corsetti, che ha riproposto una formula inaugurata con strepitoso successo sempre nel segno di Rossini, con una Pietra del paragone sperimentata per la prima volta al Regio di Parma nel 2006. Semplice quanto ingegnosa, la tecnica adoperata si fonda su quanto da tempo è noto ai frequentatori dello schermo: e cioè il fatto che il blu scompare nella dimensione del video, lasciando una zona di “vuoto” del campo visivo. Nel caso della Pietra, un videoartist francese, Pierrick Sorin, interamente vestito di blu, poteva così circolare indisturbato sulle scene riprese in diretta video – e ingigantite su schermi posti in alto e ai lati della scena – realizzando una serie di controscene a commento dell'azione principale. L'uso della tecnica del chroma key diventa così espediente per amplificare volti e immagini, ma al tempo stesso contestualizzarle in un ambiente video, precedentemente realizzato e sovrapposto allo sfondo blu, neutro e dunque invisibile. Apparentemente complesso, questo artificio è stato da allora applicato dal regista romano ai titoli più disparati del repertorio lirico: da I Was Looking at the Ceiling and Then I Saw the Sky di John Adams alla Sonnambula di Bellini, fino alla Belle Hélène di Offenbach, presentata l'anno passato allo Châtelet di Parigi.

Di tutto questo poco cale allo spettatore: di rado consapevole – com'è giusto che sia – della felice trovata, viene messo in condizione di apprezzare una moltiplicazione dei piani d'azione e della storia narrata. Perché a fronte di un impegno scenico quasi irrilevante – appena cinque parallelepipedi, che lo stesso Barberio Corsetti ha disegnato con Massimo Troncanetti – un autentico caleidoscopio d'immagini, a metà strada tra il cartoon e il naïf, conquista, irretisce, travolge il pubblico. Si comincia dunque in una notte stellata à la van Gogh, proiettata sugli squallidi falansteri di un città qualunque, fino ad approdare alla cucina di Angelina, dove una caffettiera sbuffa sul fuoco mentre banane e pomodori, kiwi e altri ortaggi ‘nuotano' nello spazio, componendo sulle pareti ritratti burleschi in stile trompe-l'œil che sembrano scaturiti dalla fantasia di Arcimboldo. In questo mondo fantastico il saggio Alidoro è una sorta di chirurgo plastico, pronto a trasformare Angelina, bruttina stagionata e casalinga disperata, in una star hollywoodiana: il viaggio tra i grattacieli di una metropoli e l'arrivo alla festa del principe sul red carpet del palazzo reale contano tra i momenti più avvincenti dello spettacolo, perfettamente sincronizzati nei fantasiosi video firmati da Igor Renzetti, Lorenzo Bruno e Alessandra Solimene. Gli spiritosi, esilaranti costumi di Francesco Esposito, in una gamma che va dal rosa pallido di don Magnifico all'oro e allo smeraldo di Angelina e Ramiro, passando per tutte le sfumature dell'arancio e dell'ocra, saturano l'orizzonte cromatico della scena.

L'intera produzione ha un unico, vistoso bemolle nell' horror vacui, che domina questa concezione: in certi momenti si avrebbe il desiderio di riposare lo sguardo, soprattutto se un eccesso di informazioni vengono fornite contemporaneamente – come quando occorre comporre frasi che si ottengono leggendo consecutivamente le lettere esibite sui palmari di cui è fornito ciascun artista del coro. Ma la sovraesposizione mediatica dei volti, di espressioni scrutate, indagate, còlte in presa diretta e ingrandite sugli schermi, progressivamente permette di cogliere un aspetto fondamentale della drammaturgia rossiniana: quello scompiglio interiore, quei «quattromila pensieri», quel «terremoto» che rischia di far «l'animo nuotar», deflagrando nei ‘concertati di stupore' in cui i personaggi, spossessati della propria volontà, sono investiti e trasportati da un'urgenza superiore. Ed è in questi momenti che, opportunamente, Barberio Corsetti d'improvviso rinuncia a riprendere i personaggi e lascia il posto ora a nere silhouettes che vagano nello spazio («Nel volto estatico ¦di questo e quello ¦ si legge il vortice ¦ del lor cervello, ¦ che ondeggia e dubita ¦ e incerto sta»), ora al buio illuminato dal bagliore di mille occhi che si scrutano e s'interrogano senza trovar risposte («Questo è un nodo avviluppato»).

All'indubbio interesse di una produzione coraggiosamente sperimentale quanto accattivante si univa però, nello spettacolo palermitano, un'altra ragione che, qui e altrove, sta contribuendo al dilagare di Cenerentola. A quasi un ventennio di distanza dalla pubblicazione definitiva dell'edizione critica, curata per la Fondazione Rossini di Pesaro da Alberto Zedda, ma esattamente a quarantacinque anni di distanza dall'avvio di un cantiere filologico d'inestimabile valore, si ha finalmente l'impressione che l'intervento critico sia stato perfettamente assimilato: dai primi, indimenticabili tentativi avviati da Claudio Abbado al Maggio Musicale Fiorentino e al Festival di Edimburgo, passando per le innumerevoli riprese assicurate dallo stesso Zedda – perfino chi scrive lo ricorda sul podio di una memorabile edizione catanese, nel lontano 1989 – La Cenerentola è adesso rientrata a pieno titolo nel grande canone lirico internazionale, con caratteri il più vicino possibile a quanto era stato immaginato dall'autore. E di questo è traccia nella concertazione di Gabriele Ferro, grande conoscitore del repertorio italiano: che talora rinuncia perfino a battere il tempo, tanto orchestra e cantanti lo seguono nel vorticoso zampillare delle gemme dell'opera. Ammirevole, infatti, è la tenuta complessiva dell'orchestra, impegnata nella difficile opera d'intessere un delicato ricamo; come del coro maschile, che si fa apprezzare tanto per l'agilità scenica quanto per la compattezza vocale, grazie all'accorta direzione di Piero Monti.

Sul palcoscenico, poi, si muove con grande disinvoltura una giovane, giovanissima generazione di artisti, che del belcanto rossiniano ha fatto il pane quotidiano: e che adesso sfodera una sicurezza baldanzosa, un entusiasmo contagioso, una tale spavalda serenità, nell'affrontare le più impervie difficoltà della scrittura del Pesarese, da restituire alla Cenerentola quella cifra ludica, che la rende così invitante. Si prenda il caso delle due sorellastre: se Marina Bucciarelli è una deliziosa Clorinda, Annunziata Vestri, autentica specialista del ruolo di Tisbe, compone un ritratto spassosissimo, spigoloso e altero, difficilmente eguagliabile. Gianluca Margheri è un Alidoro giovane e aitante, di bellissimo timbro, capace di rendere giustizia alla sua grande aria, autentico banco di prova degno del repertorio serio. Gli fa da contraltare il Dandini spigliato e giustamente disinvolto di Riccardo Novaro, che ha maturato tale esperienza da delineare con finezza di tratti tanto gli accenti della regal sortita, quanto l'esilarante duetto per due bassi del secondo atto. Magnifico è il don Magnifico di Paolo Bordogna, il più attendibile buffo dell'ultima generazione: forse il timbro non è di quelli che s'imprimono nella memoria, ma è esemplare tanto il rigore nella costruzione del personaggio quanto la perizia nei sillabati, schioccati con sonora convinzione, autentici scioglilingua d'inebriante carica virtuosistica.

Rimane da dire della coppia dei protagonisti: due tra i vertici della poesia per musica rossiniana. Nel ruolo del principe Ramiro, René Barbera, che avevamo già ascoltato come Almaviva, è un'ottima conferma: gli appartiene tanto la sognante dimensione poetica del duetto di sortita con Angelina, quanto la spavalda coloratura della grande aria del secondo atto, affrontata con slancio negli acuti, omogeneità di emissione, generosa partecipazione. Le ultime lodi non si sa se indirizzarle a Chiara Amarù, che veste i panni di Angelina, o alla dirigenza del Teatro Massimo: che ha colto al volo la possibilità di fare esibire una giovane artista palermitana, nel fiore delle sue potenzialità, e le ha permesso di cogliere un meritato successo personale. La Amarù compone infatti un'Angelina di pastosa grana contraltile, morbida nel fraseggio della canzone iniziale, svettante nel tripudio delle roulades finali, capace di colorire il personaggio con una malinconia che suona di stupore e di meraviglia, quando al mondo intero fiera proclama la sua filosofia di vita («Sprezzo quei don che versa ¦ Fortuna capricciosa»). Sarebbe ingeneroso affermare – per una cantante appena trentenne – che le manca ancora quel carisma, forse un briciolo di abbandono e di poesia che è stato delle grandi interpreti del ruolo: è stato bello percepire l'affetto del pubblico, quella spontanea e sorgiva sim-patia che inscindibilmente salda il personaggio all'interprete e questi all'uditorio. Perché in questi casi non trionfa solo la bontà: ma anche la musica e il teatro, e la grande passione di chi entrambi anima ed esalta.

Giuseppe Montemagno

26/4/2016

Le foto del servizio sono di Rosellina Garbo.