La Favorite
alla Fenice di Venezia
Spiace molto dover costatare l'infelice esito, sotto tutti gli aspetti, de La Favorite di Gaetano Donizetti al Teatro La Fenice. La Favorite, che fu rappresentata in prima all'Opéra di Parigi il 2 dicembre 1840, è un grand-opéra di grande fattura ma che attinge musica da lavori precedenti, in prevalenza non eseguiti, del maestro bergamasco. Partitura e soggetto si basano sostanzialmente su Ange de Nisida (1839) opera mai rappresentata al Théâtre de la Renaissance per fallimento della gestione del teatro. Obbligo precisare che alcune parti dell' Ange derivano a sua volta dall'opera Adelaide che Donizetti aveva iniziato a comporre e in seguito messo da parte intorno al 1834. L'autografo della partitura de La Favorite è pertanto un complesso intreccio di musica e soggetti diversi (alcuni con versi in italiano, poi sovrapposti da quelli in francese), in cui la maestria del musicista italiano, il migliore e più poliedrico al tempo, fu abilissima nell'assemblare parti differenti in un'unica drammaturgia nuova e un tema musicale sempre di grande spessore. Non mi dilungo facendo un elenco delle nuove musiche, pongo l'accento invece sul fatto che la composizione della Favorite era destinata all'Opéra, il più prestigioso teatro della capitale francese, e poneva peculiari esigenze che dovevano soddisfare le pretese del pubblico parigino: un'opera in stile grand-opéra, con balletto e divertissement, suddiviso almeno in quattro parti, e fonte d'ispirazione storica. Altro aspetto rilevante dal punto di vista musicale fu che la scrittura fu confezionata sulle caratteristiche di Rosine Stolz, stella dell'Opéra nonché amante del direttore del teatro, la quale possedeva un'autentica voce di mezzosoprano di ampio registro, basato sulla concezione romantica che avrebbe avuto grande spazio nel nostro paese. La vicenda dell'opera è focalizzata sul fatto che Fernand (primo tenore) è innamorato dell'amante di Alphonse Re di Spagna (primo baritono). Fernand rappresenta l'ideale dell'amore cortese attraverso il suo idealismo puro, il coraggio fiero e il più alto senso dell'onore. La parte fu composta per Gilbert Duprez, altra stella parigina, il quale aveva modo di mettere in luce una declamazione eroica ma dolcissima rilevando una forte espressione del recitativo cui ovviamente va ad aggiungersi una spiccata propensione al registro acuto, anche sopra il rigo, ma sempre da cantare "doux". Alphonse, il Re, è uno dei personaggi donizettiani più affascinanti essendo un re a tutto tondo ma mettendo in luce anche altri aspetti della sua personalità come la sensualità, la perfidia e il romanticismo. Tali caratteristiche appaiono evidenti in un canto sempre morbido e nobile, ricco di fraseggio e colore, il quale prevale su un'intensità drammatica. Altro importante personaggio è Balthasar, basso, che nella sua grande melodia del quarto atto potremmo affermare, musicalmente, essere figlio di un Sarastro e padre di molteplici austeri simili personaggi verdi anni. Nel complesso un'opera come La Favorite potrebbe essere non particolarmente fastosa per le usanze de l'Opéra per uno sviluppo drammaturgico-musicale più intimo ripensando anche ad altre partiture dello stesso Donizetti, tuttavia, l'opera è da considerarsi fra le migliori dell'autore e giustamente come afferma William Ashbrook "...non si tratta di melodramma romantico italiano, bensì di un elegante grand-opéra francese e richiede il fuoco e l'incisività della versione originale affinché la sua passione controllata possa affiorare ed inoltre occorre rappresentarla chiaramente nello stile grand-opéra".
Quest'aspetto ma soprattutto le caratteristiche vocali dei protagonisti sono mancate nella produzione veneziana. Favorite necessita di quattro fuoriclasse, al pari de Il Trovatore se si vuole fare un parallelo, e non mettendo in dubbio che oggigiorno siano difficili da recuperare la scelta veneziana è andata al ribasso.
Veronica Simeoni, Léonor, ancora una volta non mi distacca dalla convinzione che vocalmente trattasi di soprano corto con modeste tecniche vocali. Lo dimostrano un continuo abuso del grave, però afono, e una limitata perizia in acuto. Non si possono negare una partecipazione scenica e un rilevante accento, ma questi sono troppo esigui perché definiscano la performance accettabile.
John Osborn, Fernand, era la carta più interessante della locandina ma nel complesso non supera la prova. Un tempo sua peculiarità era il registro acuto che a Venezia non abbiamo sentito, perché la sua interpretazione vocale era improntata tutta su mezzevoci, anche raffinate, ma che alla fine risultano monotone se non abbinate a un canto accentato, frutto di ragionati colori e pertinente. Lo smalto vocale non è mai stato particolarmente suggestivo e il limitato uso oggi di volate sovracute rende questo cantante molto ridimensionato.
Vito Priante, Alphonse XI, era il cantante più contenuto e maggiormente in regola con la parte, tuttavia nella sua interpretazione mancava la tinta del grand seigneur baritonale, contraddistinto da accento, fraseggio, varietà di colori e ampiezza vocale tipica di un re di Spagna.
Il Balthazar di Simon Lim presentava come il solito un timbro di basso molto interessante ma sovente ingolato e con appariscenti limiti tecnici emersi in particolar modo nell'aria del IV atto. Molto buona la prova di Ivan Ayon Rivas, Don Gaspar, tenore squillante e molto musicale, peculiarità meno felici per Pauline Rouillard, soprano troppo leggero e stridulo per la parte di Inés. Completava il cast con professionalità il Signore di Giovanni Deriu.
Delude la direzione di Donato Renzetti per eccessi di volumi che sovente coprivano sia i solisti sia il coro. Inoltre, mancava una linea narrativa fondamentale per tale spartito, la sua concertazione era disomogenea con tempi altalenanti o vorticosi che sovente spaesavano; anche il balletto non aveva l'aurea del grand-opéra che ridotto scenicamente non lasciava traccia. Ottima la prova del coro diretto da Claudio Marino Moretti.
Sullo spettacolo ci sarebbe poco o nulla da dire tanto era brutto e del tutto fuori linea con la drammaturgia. Rosetta Cucchi ha scritto nelle note pubblicate nel programma di sala “… ho voluto creare un mondo futuribile dove le convenzioni e le consuetudini che legano i rapporti tra uomini e donne si sono estinte nel momento in cui si sono estinti sia il patto sociale che la natura, cioè la forza che da linfa all'essere umano. Un mondo dove si conservano resti di una natura morente e dove gli uomini sono stati scientemente divisi dalle donne, le quali hanno perso i loro diritti e vengono allevate per procreare una futura stirpe di guerrieri”. Questa la linea dello spettacolo. Personalmente non ho capito tale concetto né tantomeno cosa sia parallelo a La Favorite che narra di tutt'altre vicende. Pertanto abbiamo avuto una scena, per nulla suggestiva di Massimo Checchetto, quasi plastica, tetra e misera nella quale si muovevano con solennità i protagonisti, non c'erano traccia di una recitazione, di sentimenti e passioni, neppure di regalità o concetti religiosi. Una sorta di fantascienza che è da annoverare tra le più insignificanti produzioni della stagione. Costumi scialbi e poco funzionali di Claudia Pernigotti, luci sempre soffuse di Fabio Berettin, proiezioni non entusiasmanti di Sergio Metalli e ridicole le coreografie di Luisa Baldinetti che realizza un balletto da gran-opéra con due ballerine all'interno di un tubo di plastica. Spettacolo da dimenticare.
Durante l'esecuzione il pubblico era piuttosto sconcertato, con rarissimi applausi agli assoli dei cantanti, ma al termine successo di misura per tutti.
Lukas Franceschini
17/5/2015
Le foto del servizio sono di Michele Crosera.
|