Puer natus est
Il tema dell'esilio è vecchio come il mondo: si può essere esiliati politici, economici, sociali, ma tutti gli esiliati hanno in comune la lontananza, dalla propria nazione, dal proprio milieu o dall'umanità in generale (e allora si chiamano reietti), ma in ogni caso si tratta di varianti di un unico fenomeno. L'esilio è qualcosa che ti sta dentro, come una piaga nascosta, che ti fa sentire sempre e comunque escluso.
Su questo tema Gianni Clementi ha costruito, da un'idea del regista Antonio Calenda, un'articolata sinfonia, che abbraccia tutte le variabili di tale sentimento di esclusione, ambientandolo proprio nella notte in cui nacque l'esiliato per eccellenza, colui la cui patria era il cielo: Gesù Cristo. Il luogo non è Nazareth, ma l'isola siciliana oggi simbolo deli rifugio-ghettizzazione di una miriade di disperati che affrontano un viaggio in bilico tra la morte e la vita, per sfuggire all'inferno della politica e della religione: Lampedusa. È nato così Finis Terrae Lampedusa, dove già l'uso del latino allude ad una dimensione cosmica ma sempre presente, troppo spesso liquidata come un altrove comodo e sicuro, situato in un tempo e uno spazio altri, lontani dalle nostre società comode, tranquille, igieniche, dove la guerra è solo un'eco lontana, dove non si ammazza in nome di una religione che agli occhi di una sinistra buonista e ottusa può anche apparire normale, e che i cattolici tentano disperatamente di inglobare con distinguo bizantini tra estremismo, ISIS e islam storico.
Confine della terra, confine tra veglia e sogno dove tutto può accadere, anche che due miserabili contrabbandieri di sigarette, in attesa su una spiaggetta di Lampedusa (chiamata baia di Medea, per un ulteriore rimando ad un'intertestualità di madre-matrigna, quale è la patria per tanti), si ritrovino ad aiutare dei clandestini approdati nella baia proprio la notte di Natale: Carbieli (Gabriele) e Peppe (Giuseppe) assistono così, in una dimensione onirica che tale si svela/rivela solo alla fine, ad uno sbarco guidato non da uno scafista, ma da un negriero che definisce se stesso con le parole che Dante usa per Caronte: traghettatore per un inferno altro, negriero di nuovi schiavi, che giungono in catene recando ciascuno una croce, in abiti tribali, in una diversità voluta e sottolineata anche dagli strumenti musicali che si tirano dietro, sui quali intoneranno i loro canti ancestrali, come gli schiavi di America intonavano i loro gospel.
E tra questi derelitti, una giovane donna incinta, che narra una storia tremenda, concentrato di dolore, solitudine e paura, e alla quale Gabriele e Peppe, svelatisi ormai nella realtà dei loro nomi, porgeranno aiuto per la nascita del bimbo. Un bimbo che nasce, come in una Passio all'incontrario, dopo la crocifissione del negriero ad opera dei naufraghi: croce non simbolo di perdono, ma esplicitamente alludente ai ladroni crocifissi con Cristo. E anche Caronte negriero, all'alba, quando il sogno svanirà, troverà perdono poco prima del vagito del bimbo.
Una pièce intensa, dove il tema della clandestinità non viene, almeno un volta, esplicitato in tono predicatorio, ma riproposto nella sua storia ancestrale, sino alle radici; per far capire che insomma nel mondo poco o nulla è cambiato, che la storia dell'uomo è una storia di esili, di naufragi e di diversità, e che poco o nulla la religione ufficiale ha fatto e fa per mutare questo eterno scandalo. Ottima la scelta di un registro plurimo, dove la pronuncia, volutamente sporca e dialettale nella prima parte, dei due contrabbandieri, interpretati dai bravissimi Paolo Triestino (Carbieli) e Nicola Pistoia (Peppe) si piegava agli echi dell'endecasillabo leopardiano, dell'Odissea omerica, della terzina dantesca, e alla dizione aulica della scena del sogno. Francesco Benedetto ha interpretato un Negriero sanguigno, crudele come un capo barbarico, riuscendo ad evidenziare tutte le sfaccettature morali che il copione prevedeva per il suo personaggio. Ottimo tutto il cast degli attori di colore, che si sono rivelati anche musicisti coinvolgenti ed appassionati, creando sui loro strumenti istanti di autentico coinvolgimento panico, dove la musica si legava al testo, alle movenze e alla scenografia in un insieme atemporale, quasi da tempo sospeso, denso com'era di ritmi tribali, di echi animistici e di un linguaggio corporeo fortemente ritmato e allusivo. Su tutti hanno spiccato la giovane donna incinta, interpretata con grande maestria scenica da Ashai Lombardo Arop, e il Professore di Ismaila Mbaye.
Bellissime le scene di Paolo Giovanazzi, essenziali ma fortemente pregnanti ed ostensive, alle quali il taglio luci di Nino Napoletano ha prestato sfumature sanguigne, truci, tempestose e rasserenanti, complici i suoni assolutamente realistici di Borut Vidau.
Giuliana Cutore
21/12/2014
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