Tra fantasmi e falsari
Umile artigiano ingoiato dalla Storia o musicista borderline ancora alla ricerca di una sua esatta collocazione? Compositore esperto ma gregario, dunque soggiacente agli schemi musicali del proprio tempo, o «cerebrale, ingegnoso e artificiale» come ebbe a definirlo Guido Pannain? Con una carriera che parte all'indomani del ritiro di Rossini, ottiene le prime affermazioni alla vigilia dell'avvento verdiano e, poi, opta per un black-out di visibilità (una lunga parentesi compositivo-impresariale al di là dell'oceano) che dà spessore alla parabola personale, ma lo colloca nelle retrovie al rientro in patria, è difficile dire se Lauro Rossi sia operista marginale o marginalizzato. E il fatto che la conclusione del percorso sarà poi all'insegna dei melodrammi tragici, dopo un catalogo perlopiù buffo e semiserio, non aiuta a far luce sulla sua natura più vera; semmai ribadisce un indecifrabile eclettismo: forse dispersivo, o forse inquieto. Il festival Il Belcanto ritrovato – manifestazione di spettacoli itineranti nella provincia di Pesaro e Urbino, giunta ormai alla sua terza annata, che meriterebbe ben altra visibilità – ripropone ora a Fano, nella splendida cornice del Teatro della Fortuna, uno dei titoli di Lauro Rossi cui arrise maggior successo: La casa disabitata (1834). Un “melodramma giocoso”, volendosi attenere alla dicitura del libretto, ma da ricondurre nell'alveo di quell'eterogeneo contenitore che è il genere semiserio: non a caso quando, una decina di anni dopo, Rossi ne farà una revisione – reintitolandola I falsi monetari – sul frontespizio si leggerà semplicemente “melodramma in due atti”. D'altronde la stessa collocazione in un festival programmaticamente belcantistico potrebbe trarre in inganno, riguardo la reale fisionomia della partitura: benché non manchino momenti di vocalità ornata, specie sul fronte femminile, la lezione del realismo comico – Rossi studiò a Napoli – porta qui a una scrittura essenzialmente sobria e lineare. Che richiede insomma virtuosismo in termini ora patetici e ora burleschi, ma quasi mai acrobatici.
Dunque un'opera centrifuga, dove il sempiterno tema della casa fatta credere infestata da fantasmi per allontanare i visitatori (allo scopo, in questo caso, di potervi stampare denaro falso) è solo un tassello del mosaico. Ne deriva una drammaturgia assai articolata nelle situazioni – quasi ogni scena parrebbe, di primo acchito, dar vita a una nuova storia – e ortodossa nella grammatica (protagonista femminile in chiave di contralto sulla scia delle Rosine e delle Isabelle, tenore di mezzo carattere, baritono vilain, una coppia comica per rinfrescare la vicenda), ma imprevedibile nella sintassi: ecco dunque un soprano “seconda donna” periferica nella trama, eppure alle prese con un'impegnativa aria con coro; ecco il baritono cattivo insignito d'un momento di slancio amoroso che cercheremo invano nel tenore; ecco il buffo tandem composto da Eutichio e Sinforosa elevarsi da siparietto a motore della vicenda, in un'interazione dialettica che sembra anticipare Don Ferrante e Donna Prassede (o forse ricalcarli: La casa disabitata precede I promessi sposi, ma è composta dopo Fermo e Lucia). Merito certo pure di Jacopo Ferretti, che firma qui un libretto all'altezza delle sue migliori collaborazioni rossiniane e donizettiane, raffinatissimo nella versificazione e con un omaggio a Da Ponte – il poetastro Eutichio sta riscrivendo il Don Giovanni – che è al contempo puro metateatro e parodia alla Franchi e Ingrassia ante litteram.
Questa prima ripresa in tempi moderni della Casa disabitata ha potuto ovviamente contare su un'edizione critica, a cura di Damiano Cerutti, che peraltro prende a basamento la seconda e più meditata stesura, ossia I falsi monetari; ma soprattutto si è avvalsa di una realizzazione spartana (pochi soldi a disposizione, ci sarebbero voluti davvero i falsari) e garibaldina (tempi di prova strettissimi), corroborata però dall'entusiasmo di tutti: l'Orchestra Sinfonica “G. Rossini”, il suo direttore Enrico Lombardi e un cast di giovani alcuni dei quali già con cimenti significativi alle spalle, come il tenore Antonio Mandrillo e il “buffo” Giuseppe Toia. La lettura musicale di Lombardi, in particolare, consente una percezione esauriente della partitura: una breve ouverture che ci catapulta in piena temperie semiseria, con un rullare di percussioni che rinviano implicitamente alla sinfonia della Gazza ladra; l'assai maggior complessità dei brani d'insieme rispetto ai momenti solistici; il coro in un rapporto osmotico con i singoli personaggi. Solo in quella che è la pagina forse strutturalmente più articolata (il duetto tenore-baritono) è sembrato di percepire qualche sfasamento tra l'orchestra e le voci, e delle due voci fra loro.
Nel triangolo amoroso Mandrillo si conferma tenore capace di “legato” suadente e squillo accattivante, Tamar Ugrekhelidze – bel colore mezzosopranile – ha la femminilità volitiva e pugnace richiesta dal personaggio, Matteo Mancini sfoggia voce baritonale robusta e ben emessa, forse con un eccesso di metallo in rapporto a questo repertorio; mentre, sul versante comico, Toia è scaltro dicitore nel canto sillabico e Vittoriana De Amicis gli fa da spalla con spirito ma senza strafare. Meno a fuoco il soprano Jennifer Turri e il basso-baritono Martin Csölley, anche perché la regia di Cristina Pietrantonio non si preoccupa di scavare nei personaggi, specie quelli un po' defilati: è però una messinscena, la sua, godibilmente evocativa nel riallacciarsi alle comiche del muto e ai cartoni animati (niente scenografie, ma solo disegni videoproiettati a cura dei ragazzi del Liceo Artistico Mengaroni di Pesaro), mentre l'assenza d'un lavoro sulla gestualità viene surrogato dalle innate doti attoriali di tutti. E pure il coro recita con naturalezza (è quello del Teatro della Fortuna, istruito da Mirca Rosciani), a cominciare dai molti artisti orientali che lo compongono.
Paolo Patrizi
28/8/2024
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