RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Le streghe son tornate!

 

Prendete una marcia dall'Amour des trois oranges di Sergej Prokof'ev; aggiungete una spolverata di fantasia dall' Enfant et les sortilèges di Maurice Ravel; indi frullate il tutto in salsa minimalista, aggiustate con sale e pepe quanto basta. Se avete seguito con diligenza la ricetta potrebbero venirne fuori – ma non è detto – Le streghe di Venezia, titolo tra i meno frequentati del catalogo di Philip Glass, recentemente in scena al Teatro Massimo di Palermo come ultimo titolo lirico prima della pausa estiva. È una «fiaba pazza, movimentata e bellissima», secondo la descrizione del musicista stesso, frutto della collaborazione tra il guru della minimal music e Beni Montresor, compianto scenografo e costumista di origini veronesi, ma anche drammaturgo e cineasta caro al mondo della cultura statunitense, che sin dal 1981 gli ha dedicato una personale al Lincoln Center di New York. Dal multiforme talento dell'artista veneto nascono infatti The Witches of Venice, un picture book, un libro con illustrazioni pubblicato per i tipi di Alfred A. Knopf e rivolto ai lettori più giovani: ne sono protagonisti infatti due Bambini-fiore sorpresi «mentre volano dentro un piccione di legno attraverso il cielo glorioso di Venezia.»

Le streghe di Venezia vengono commissionate dal Teatro alla Scala di Milano a Philip Glass nel 1994: al debutto, il 20 dicembre del 1995, sono classificate come opera-balletto su coreografie di Mauro Bigonzetti, «felicemente costretto» a dar vita a un mondo fiabesco di incantesimi e di magie, affidati a Elisabetta Armiato e Isabel Seabra, con la partecipazione straordinaria di Carla Fracci nei panni di una Strega madre «comica, grottesca, esilarante.» Nella sala del Piermarini, tuttavia, seguendo una deprecabile prassi dell'epoca, la musica non venne eseguita dal vivo ma pre-registrata su nastro magnetico da un organico ridotto, che in gran parte ricalcava quello del Philip Glass Ensemble, con flauto, clarinetto, violoncello, percussioni e due tastiere elettroniche. Solo un quindicennio più tardi avrebbe visto la luce la versione definitiva dell'opera, alla Sala Petrassi del Parco della Musica di Roma, il 5 dicembre del 2009, in coproduzione con il Ravenna Festival, che avrebbe ospitato lo spettacolo due anni più tardi. L'impianto di base, in questa circostanza, viene sensibilmente modificato dalla presenza di un coro di voci bianche e di un quartetto di cantanti-attori, alle prese con il nuovo libretto di Vincenzo Cerami, in una delle sue rare incursioni nel mondo del teatro musicale. Ne scaturisce un prodotto di sicura presa sul pubblico più giovane – anche per la breve durata, poco più di un giro di lancette – come su quello più sperimentato, facilmente catturato dall'atmosfera onirica dello spettacolo, che tiene conto delle predilezioni mozartiane di Montresor coniugandole con la grande tradizione romantica dei racconti di E.T.A. Hoffmann, di Andersen e dei fratelli Grimm.

Al Massimo di Palermo l'occasione è stata preziosa anche per rivedere la produzione originale dello spettacolo, firmato per la regia e le scene da Giorgio Barberio Corsetti su costumi di Marina Schindler e coreografie di Julian Lambert. Come per la recentissima Cenerentola rossiniana, tuttavia, lo spettacolo è stato interamente ripensato avvalendosi della tecnica del chroma key, che ancora una volta ha permesso di confondere la realtà con l'illusione: vengono così ripresi in diretta trucchi che, amplificati nelle immagini video su grande schermo, si trasformano in immagini di strepitoso impatto teatrale. E il risultato è tanto più sorprendente quanto più, in questa occasione, permette di mettere in scena il mondo visto attraverso gli occhi di un bambino, protagonista dell'azione.

Grazie alla collaborazione dello scenografo Massimo Troncanetti, degli irresistibili video realizzati da Igor Renzetti, Lorenzo Bruno e Alessandra Solimene, e delle luci soffuse create da Gianluca Cappelletti, sulla scena trovano posto tanto un Re, che trova scomodo un trono che lo espelle in attesa dell'erede, quanto il Vento, che spira sulla laguna; e ancora gli improbabili ospiti del gran ballo delle Streghe, che si acconceranno in un salone di bellezza in puro stile horror, come un Orco androgino, pronto ad adescare gli spettatori della platea; e perfino una carota, un baccello di piselli e una melanzana, ortaggi dapprima usati come morbida culla del Bambino-pianta, poi protagonisti – nell'imprevedibile, ironico finale – di un perfido tip tap … in padella, mentre l'olio sfrigola e ribolle!

Gran cerimoniere dell'impresa, sul podio di un ensemble orchestrale di pregio ma a ranghi ridotti, è Francesco Lanzillotta, bacchetta sensibile al repertorio contemporaneo, capace di trovare il giusto equilibrio tra timing inflessibile (strepitose le due tastiere di Pasquale Lo Cascio e Giuseppe Cinà) e morbido, sensuale abbandono (con il clarinetto basso di Alessio Vicario, nel voluttuoso song dell'Orco). Spiace solo che il raccordo con il palcoscenico venga falsato dall'amplificazione delle voci, forse necessario nei passaggi recitati, ma sicuramente superfluo in quelli cantati, che così risultano malamente deformati. Anche perché i solisti, pur essendo diligenti, non sono certo quanto di meglio si possa auspicare: non il flebile Re di Gianluca Bocchino né l'Orco grottesco e caricaturale di Salvatore Grigoli, né l'intubata Domestica di Valeria Tornatore; meglio l'elegante Fata di Gabriella Costa, ironica e brillante anche come Strega Converrà tacere, infine, i nomi dei due bambini protagonisti – e non solo perché giustamente si alternano nel corso delle numerose recite: certo anche il coro di voci bianche viene messo a dura prova delle strutture ritmiche ripetitive della musica di Philip Glass, ma non si comprende perché debbano difettare rigore e intonazione, indispensabili per questa – più che per altre – partitura. Poco incisiva risulta anche la partecipazione dei mimi (Valeria Almerighi, Valentina Apollone, Giulia Cutrona, Giovanni Prosperi, Daniele Savarino), sempre eccessiva e affettata, con una recitazione che vorrebbe essere ammiccante, mentre è semplicemente goffa e imprecisa. Bene si integrano, invece, nel complesso quadro scenico-musicale, il gruppo di SeiOttavi, una piccola compagine corale a cappella che sembra aver fatto tesoro della leggendaria lezione degli Swingle Singers.

«La vità è difficile…» – chiosa alla fine il Re, cui tocca enunciare la scontata morale della fiaba: «per questo ha bisogno di amore e di felicità!»; più prosaicamente gli fa eco la Domestica, quando ricorda che per affrontare le difficoltà della vita «un po' di vino rosso fa cantar!» Magari accompagnato da una gustosa caponata, come quella che si prepara a imbandire per la strana corte di orchi e di streghe, di re solitari e di bambini sognatori: spettatori di ieri, di oggi e di sempre, ai quali spetta l'applauso finale.

 

Giuseppe Montemagno

12/5/2016

Le foto del servizio sono di Franco Lannino.