I mille volti di Don Giovanni
Opera dalle smisurate prospettive, Don Giovanni trova in Romeo Castellucci un interprete ambizioso nelle scelte estetiche e drammaturgiche. Riprendendo l'allestimento del 2021, arricchito da alcune nuove idee, il Festival di Salisburgo offre l'occasione per approfondire uno spettacolo complesso, che non si esaurisce nella singola visione. Prima che risuonino le note dell'ouverture il sipario si apre sulle architetture di una chiesa, spogliate da un gruppo di operai degli attributi sacri. Pale d'altare vengono rimosse insieme al crocifisso. Le panche vengono portate via. Lo spazio scenico è pronto per essere violato dagli insaziabili appetiti del protagonista. Subito dopo una capra attraversa l'enorme palcoscenico del Grosses Festspielhaus; il demoniaco fa il proprio ingresso nella vicenda. Nel primo atto le sorprese vengono dall'alto. Palle da basket piombano al suolo rotolando ovunque (anche nella buca dell'orchestra), forse a simboleggiare l'inesausto movimento del protagonista. Un'auto con i fari accesi viene calata giù, mentre un pianoforte precipita e si infrange al suolo con sommo fragore. Sarà lo stesso Don Giovanni, malinconicamente, a tentare di suonare lo strumento ormai malconcio. Molto bella la scena della seduzione di Zerlina, con una enorme carrozza spinta verso un viaggio immaginario, e il seduttore che lega la sua preda con un filo rosso a un fragile alberello per impedirle di fuggire. Sarà l'ingresso di Donna Elvira a impedire il fatto, mentre una ruota cade simbolicamente dal suo cocchio. Più banale invece la scena del catalogo, con Leporello che enumera le conquiste del padrone ricorrendo a due fotocopiatrici. Un demone oscuro si abbarbica sulla schiena di Don Giovanni, salvo poi assalire la riproduzione di un ritratto femmineo di Petrus Christus. Quando Donna Anna realizza l'identità del proprio aggressore, due burattini mimano l'atto sessuale in una scena di rara suggestione. Finale primo con una miriade di oggetti che ingombrano il palco, a simboleggiare il caos che governa le nostre vite. Il secondo atto è dominato da uno stuolo di donne di ogni età, potenziali vittime della pantagruelica sensualità di Don Giovanni. Si muovono in gruppo, modellando inedite prospettive. Nella scena del cimitero Castellucci riesce a evocare atmosfere infere senza l'uso di elementi concreti, con il semplice movimento dei corpi nell'oscurità. Il monumento funebre del Commendatore non viene mostrato, ma incute comunque terrore. Nel finale il consueto ingresso del convitato di pietra non avviene. La voce del Commendatore sembra uscire direttamente dal corpo del dissoluto, come se questi fosse posseduto da potenze sovrannaturali. La punizione si esplicita nell'immobilità, il cui simbolo sono i corpi delle vittime dell'eruzione di Pompei portati in scena, in opposizione alla vitalità irrefrenabile di Don Giovanni. Sovente la modernità predilige il biancore alle consuete e vetuste antinomie cromatiche in uso a evidenziare il contrasto fra bene e male, evocando la simbologia sulla quale Melville, con somma intuizione, edificò il suo capolavoro letterario. Un discorso che interessa spesso l'estetica di Michieletto, e dal quale Castellucci non è esente. Colpisce la bianchezza abbacinante nella quale viene ambientata la vicenda, quasi un corrispettivo visivo della vacuità di cui il protagonista è preda, della sua sostanziale amoralità. Il desiderio muove Don Giovanni, una forza naturale e incomprensibile, come inafferrabile e arcana è la balena bianca dello scrittore americano. Rare eccezioni, come le già citate scene dei burattini e del cimitero, spezzano un cromatismo altrove a senso unico. Anche Don Giovanni e Leporello sono abbigliati in bianco, i costumi sono opera di Theresa Wilson, a indicare come l'uno sia il doppio dell'altro.
Qualcosa bisogna dire riguardo il ritmo dello spettacolo, sospeso in un'aura ultraterrena, di metafisica complessità. I recitativi vengono dipanati con lentezza inconsueta, spezzati nel loro svolgimento, articolati in una visione teatrale del tutto peculiare. Nella lettura di Castellucci l'aggettivo giocoso resta in secondo piano, mentre l'attenzione si focalizza sul dramma, del quale la maschera da tragedia greca portata da Donna Anna è simbolo. La concezione sontuosa e barocca dell'allestimento trova mirabile consonanza con la parte musicale, diretta come di consueto in maniera estroversa e personale da Teodor Currentzis alla guida dell'Utopia Orchestra. Una visione che prescinde dalla tradizione per sorprendere con scelte agogiche e dinamiche del tutto peculiari. Molteplici sono gli accenti, le sfumature che ammantano il tessuto strumentale di inediti cromatismi. Nelle arie, i da capo divengono spesso oggetto di variazioni. Ne risulta un'esecuzione scintillante, mai scontata, anche se non esente da tentazioni manieristiche. Fra i momenti più belli ricordiamo l'orchestra che sale al livello del palcoscenico in “Fin c'han dal vino”, eseguita con verve e spirito da Davide Luciano. Il suo è un Don Giovanni dalla vocalità non enorme, nel complesso ben cantato, si pensi alla serenata, al quale manca ancora qualcosa in termini di personalità per rendere tutta la complessità del personaggio. Nel cast spicca la Donna Anna di Nadezhda Pavlova, eccellente ad esempio nell'aria “Non mi dir, bell'idolo mio”, ambientata in atmosfere sospese e sfumate degne dello Zauberflöte. Le sta accanto l'eccellente Donna Elvira di Federica Lombardi, perfettamente credibile nei panni dell'amante tradita. Kyle Ketelsen è un Leporello più che corretto, mai sopra le righe. Don Ottavio è caratterizzato da numerosi cambi di costume che lo presentano di volta in volta come un cavaliere in realtà ben poco eroico, o ancora come una sorta di Pierrot, a indicarne il carattere smidollato. Julian Prégardien si inserisce nel solco della tradizione, grazie al timbro chiaro ma non esile e al fraseggio aggraziato. Grave e cavernoso come si conviene il Commendatore di Dmitry Ulyanov. Apprezzabili infine Zerlina, Anna El-Khashem, e Masetto, Rubén Drole.
Sala piena e entusiasmo alle stelle.
Riccardo Cenci
12/8/2024
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