Parigi
Il ritorno dei grandi assenti
Les Huguenots, quale esempio di grand opéra, non poteva che ricomparire alla ribalta della casa che lo ebbe a battesimo (anche se cambiato) per la stagione dei 350 anni dell'Opéra di Parigi, dove mancava dal.... 1936!, quando era arrivata a più di 1100 repliche. Va detto che le cose sono state fatte per bene: nuovo allestimento e una compagnia con due dei nomi più in principio atti a far brillare le loro difficili parti: Diana Damrau (Marguerite de Valois) e Bryan Hymel (Raoul de Nangis). Per motivi diversi, mai resi noti, e in momenti anche diversi venivano sostituiti, e il tenore proprio all'ultimo momento.
Lisette Oropesa, per fortuna libera, era l'artista che più brillava nella serata, anche se faceva annunciare che cantava malata; nonostante le manchi il carisma e la densità del timbro della Damrau non so se con quest'ultima avremmo avuto molto di più perchè la regia (Andreas Kriegenburg) incominciava facendo della regina una specie di ragazza frivola. Lo spettacolo sì lo abbiamo avuto, con tanto dell'enorme palcoscenico in alto e in largo e per certe scene si creava un certo effetto. In altre, però, come nello scontro tra ugonotti e cattolici, e per quanto riguarda i personaggi abbiamo avuto solo delle scene piuttosto povere e brutte, con delle luci fredde (fino al momento del sangue), abiti alquanto caotici (la notte di San Bartolomeo si è sviluppata in un preciso contesto storico; lo si può ignorare del tutto e fare un'altra cosa ricordiamo Olivier Py a Bruxelles ma restare a metà strada non aiuta e non serve)
e poco più.
Nel caso di Yosep Kang non si ripeteva la buona fortuna. Pensare a un solo tenore per Raoul con tante repliche era a dir vero temerario. Non so se questo tenore reggerà fino alla fine nè a qual prezzo. È stato ingeneroso da una parte del pubblico protestare alla fine. È ovvio che se in un teatro più piccolo come a Berlino il cantante non è un Duca di Mantova che lascia il segno, in questa parte terribile e tagli non ce ne sono stati o quasi cosa doveva fare? Si salvava discretamente nei primi due atti ma non reggeva la prova degli altri tre.
Nicolas Testé era un corretto Marcel (un altro di quei ruoli dove corretto vuol dire appena sufficiente) e sembrava tirar fuori la voce solo nell'atto finale. Saint-Bris (Paul Gay) ha più volume (sebbene un colore meno bello), ma non si capisce nulla. Molto bene Florian Sempey nel difficile ruolo (poco gratificato in verità) di Nevers. Karine Deshayes cantava con disinvoltura il paggio Urbain; la figura non è esattamente ideale e la voce è più grande di una volta sì, ma anche più metallica (il rondò del secondo atto, composto nel 1848 da Meyerbeer all'intenzione dell'Alboni, non veniva eseguito).
I comprimari, parecchie parti piccole ma non sempre facilissime, erano tutti a posto, signore e signori. Pare che Elina Garança fosse stata presentita per il ruolo di Valentine (qui anche con la sua aria parecchio bruttina che di solito viene omessa) ma non se ne è fatto niente.. Ermonela Jaho, che canta tutti i ruoli che le si chiedono, doveva fare appello ai suoi pianissimi (solo elemento davvero bello del suo canto) ma così facendo tradiva il personaggio. Nonostante ciò, le poche volte in cui osava l'acuto pieno arrivando al limite andavano bene e si tratta di una brava artista, ma diciamo che nel giro di un anno cantare Thais, Butterfly, Violetta e Valentine è una impresa ardita ma che lascia il tempo che trova.
Il coro è stato davvero monumentale, come capita sempre quando chi lo prepara è José Luis Basso. E l'orchestra? Ottima, molto precisa; e Michele Mariotti (malgrado gli sciovinisti che lo contestavano anche alla fine) era l'eccellente maestro di sempre, capace di concertare e non solo dirigere, e dimostrava di sapere che cosa vuol dire grand opéra e sapeva così rispettare le voci senza sacrificare per niente gli effetti della brillante orchestrazione.
Jorge Binaghi
24/10/2018
Le foto del servizio sono di Agathe Poupeney.
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