Custodi del silenzio
di Beatrice Monroy
L'opera lirica, con rarissime eccezioni, sono uomini a crearla, ma la incarnano essenzialmente, nella drammaturgia e nel canto, delle donne, eroine che ne stanno alla base e fanno da perno, sempre in netto predominio, tuttavia donne raccontate dall'eloquenza degli uomini. Da Euridice e Arianna a Lucia, Butterfly e Katia Kabanova. Custodi del silenzio. Donne nell'Opera di Beatrice Monroy (Editoria & Spettacolo, Spoleto 2021, pp. 155, € 15) ce ne parla con un linguaggio nuovo e provocatore. Custodi del silenzio perché la loro presenza basta ad ammutolire gli astanti? Collaboratrice del Teatro Massimo di Palermo, Beatrice Monroy ha seguito il suggerimento del Sovrintendente Francesco Giambrone, che ha presentato il volume, di dedicare a quattro protagoniste emblematiche del teatro lirico altrettanti capitoli, arricchendoli di monologhi ad hoc per ampliare e attualizzare la prospettiva. L'opera è viva e si rinnova attraverso le epoche e le generazioni, senza perdere la sua anima e la propria giustificazione, a dispetto di talune letture registiche odierne che ne stravolgono quando non ne tradiscono lo spirito e l'azione. Peccato che la Monroy non abbia voluto in ulteriori capitoli occuparsi anche di Lucia e di Semiramide, per esempio. Considerata inoltre la gamma limitata di casi, due Verdi non sono, a dire il vero, troppi e poi Lady Macbeth è forse più interessante di Luisa Miller o di Odabella?
Parlandoci all'inizio di Violetta della Traviata verdiana (Venezia 1853), l'autrice ci propone riflessioni “affascinanti”, stabilendo un parallelo quanto audace anzi temerario tra la prostituta d'alto bordo, che la buona società del Secondo Impero rigetta in quanto persona eppure sfrutta come essere umano (mentre la fidanzata deve restare ‘pura siccome un angelo' fino alle nozze e poi servire per la progenie, la sessualità non le spetta, tanto il coniuge si rifarà ad libitum con cortigiane o prostitute), e il dogma dell'Immacolata Concezione, che sublima mentre elimina drasticamente la femminilità di Maria. Certo, il Secondo Impero subentra in Francia nel 1852 e il dogma è proclamato nel 1854, ma il romanzo La Dame aux Camélias di Alexandre Dumas Jr. vede la luce nel fatidico 1848 e viene adattato per il teatro dall'autore nel 1852. Quando appare il romanzo, a cui Dumas figlio dovrà imperitura celebrità, questo Dumas “piccolo” ha appena 24 anni e, giovane ancora di belle speranze, è reduce da un'infuocata liaison con la demi-mondaine Marie Duplessis, favorita di aristocratici e di nobili, morta di tisi a ventitre anni nel 1847. La Monroy ignora del tutto il non trascurabile riferimento al personaggio storico, sul quale talmente tanto si è scritto finora (e non solo scritto), poiché da sola la Duplessis basta a riempire qualche enciclopedia. Anni fa, quando il compianto Pierluigi Petrobelli dirigeva l'Istituto di Studi Verdiani di Parma, donai all'Istituto una ventina di ponderosi volumi francesi sulla Duplessis storica e letteraria, su cui avevo condotto una ricerca. Violetta è doppiamente vittima di due uomini mediocri: il passionale e spensierato Alfredo, conquistatore momentaneo appagato, e lo squisito ipocrita benpensante incarnato dal padre, “elegante” fin nella maleducazione («neanche si toglie il cappello» [p. 43] quando viene ad affrontarla in casa di lei). Soccombendo, stroncata dall'inesorabile malattia, a lei spetterà però il trionfo anzi l'immortalità. Ricordo la conclusione della “scandalosa” Traviata di Maurice Béjart alla Monnaie di Bruxelles (1977): Violetta è rediviva mentre stramazzano al suolo come fulminati i due Germont.
La vicenda della belliniana Norma (Milano 1831) da un passato “arcaico” risuona ancora oggi attuale e universale: mutati costumi e circostanze, identiche restano le situazioni. «La donna che guarda la luna è sola. Vorrebbe apparire forte, dare l'impressione di disporre di se stessa, prendendo in carico i propri pensieri e i propri desideri nella responsabilità, nella colpa e nella gioia, vorrebbe essere “in se stessa”, ma […] una scelta del genere la porrebbe fuori dai recinti di protezione e lei non ce la fa, ha paura. Gli uomini e la società tutta, anche le donne che in quella società si sentono rappresentate, non amano le donne fluttuanti e libere, quelle che si chiamano “vergini” non perché non hanno mai partorito ma perché verginità è avere la capacità di definirsi da sé, senza mediazioni, senza bisogno di sentirsi “mezza”, come invece viene insegnato alle donne sin da bambine: fabbricata da una costola d'un altro essere che invece era completo. È difficile rimanere salde nel pensiero: io sono “in me stessa”, perché difficilmente si verrà accettate, piuttosto si rimarrà al margine…» (p. 56). L'apoteosi della tormentata sacerdotessa d'Irminsul, che ha tradito i suoi e il proprio sacerdozio per il proconsole straniero conquistatore e fedifrago, In una situazione sostanzialmente analoga a quella di Medea, esalta il tragico dénouement tra le vampe del rogo espiatore: affrontando la pena insieme a Pollione riconquistato all'ultimo, gli ha insegnato a essere uomo.
Macbeth, decima opera di Verdi (prima versione del 1847 per Firenze, poi rimaneggiata per Parigi nel 1865), non «cadde nell'oblio» (p. 85) per riemergere negli anni Cinquanta del Novecento, tant'è vero che, per fare un esempio, nella sola Genova tra il 1848 ed il 1889 Macbeth ebbe dodici edizioni in vari teatri. Le streghe, vegliarde malefiche e sterili, prime ad apparire, rappresentano nell'ingannevole alterità grottesca e beffarda le Moire, cioè il Destino. Con le loro profezie spingono una coppia di “ordinary people” quali Macbeth e la consorte sul sentiero dell'ambizione più sfrenata e sanguinaria, che in realtà è una strada tutta in discesa verso l'abisso infernale. Non hanno figli – lei ha “estirpato” il proprio utero – e impiegano ogni mezzo nell'indissolubile complicità per eliminare gli antagonisti e la loro progenie. Suggestivo ma forzato e riduttivo il paragone con la regina vergine Elisabetta I, sotto il cui regno William Shakespeare nasce e crea la maggior parte del suo teatro (pp. 101-103).
Il capitolo conclusivo traghetta l'opera dal melodramma al dramma lirico moderno. Nel Castello del principe Barbablù di Béla Bartók su libretto di Béla Balázs (Budapest 1918) l'antica leggenda di Barbablù, raccontata in innumerevoli versioni dal seicentesco Perrault a Amélie Nothomb, è rivisitata in una visione simbolista, che è quella della solitudine fondamentale dell'uomo e dell'incapacità fatale della donna di porvi rimedio. Non c'è lieto fine, la conclusione è tragica, ché non si sfugge a morte e distruzione, predisposte dal sangue che tutto contamina e dalle porte delle stanze che si aprono solo per richiudersi, imprigionare e sacrificare. Giuditta, quarta donna del predatore, è condannata come le altre che l'hanno preceduta. Ma lei ha scelto di sposare il mostro, negando l'esistenza del pericolo. Giuditta è animata dalla curiosità, che spinge le donne, «curiosità tipicamente femminile; per i maschi si chiama sete di ricerca. La curiosità rende le donne fragili e colpevoli fin dai tempi di Eva, per questo vanno protette e isolate e va detto loro cosa debbono fare. La sete di conoscenza, sapere di prima mano, crea indipendenza e questo non è possibile» ieri come oggi (p. 125). «Barbablù la spinge nella stanza. Lei […] non ha scelta» come le altre (p. 147).
«Ci troviamo a teatro, nel grande apparato scenico dell'opera lirica: il sipario si chiude, gli spettatori lasciano la sala soddisfatti mentre sulle tavole del palcoscenico resta da sola una donna morta. È questo l'epilogo narrativo più frequente nell'ambito del melodramma» (dalla quarta di copertina).
Fulvio Stefano Lo Presti
22/8/2021
|