RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Roma riscopre “Linda di Chamounix”

La sovrabbondante produzione operistica di Gaetano Donizetti ha sovente subito lo stereotipo critico di una sostanziale sciatteria compositiva, ipoteticamente generata dalla frettolosa redazione delle partiture. Un giudizio generico che non tiene conto della specificità dei singoli titoli, un'equazione errata nel caso della Linda di Chamounix, concepita per il gusto raffinato del pubblico viennese, uso ad una cultura strumentale eccelsa. La particolare attenzione che il compositore bergamasco dedica alla confezione orchestrale è già di per sé degna di nota. L'indubbia vacuità drammaturgica ha a lungo eclissato i meriti di un'opera stabilmente in repertorio sino ai primi anni del Novecento, tanto esaltata all'epoca del suo concepimento quanto negletta al giorno d'oggi. Linda di Chamounix torna ora al Teatro dell'Opera di Roma, dopo un oblio durato ben centotre anni. Si coglie nel suo impianto drammaturgico una strana alchimia fra spinte romantiche e derive di stampo comico in verità affidate, in maniera del tutto peculiare, al solo personaggio del Marchese di Boisfleury. Il tradizionale antagonista melodrammatico, spiritosamente definito da Bernard Shaw come il baritono che vuole contrastare l'amore fra il tenore e il soprano, veste in questo caso i panni del buffo dalla vocalità di stampo rossiniano. Suo compito quello di stemperare la tensione, annacquando un poco il patetismo imperante. Emblema di un'aristocrazia in declino, il Marchese mostra velleità amorose che nessuno può prendere sul serio. Le sue minacce generano ilarità, il suo agitarsi in scena spegne il fuoco delle passioni dettate dal romanticismo. La nascente borghesia delle grandi capitali europee avrà certamente apprezzato. Il consueto amore tormentato, con l'eroina che perde la ragione per riacquistarla nel momento in cui riesce a coronare il proprio sogno, delinea le coordinate di un intreccio convenzionale, appena screziato da improvvise virate nell'ambito buffo. I due piani si intrecciano nel duetto del secondo atto fra Linda e il Marchese, generando suggestioni inedite. Non potrebbe darsi contrasto maggiore di quello fra il canto verginale di Linda e il borbottare ridicolmente minaccioso del suo improbabile spasimante. La dicotomia dei caratteri si riflette poi nelle ambientazioni; il mondo bucolico, simbolo di innocenza, si contrappone al contesto cittadino, alveo del vizio più oscuro. La Parigi del secondo atto sembra in qualche modo prefigurare le atmosfere peccaminose della Traviata. Merito dell'istituzione lirica romana aver riproposto quest'opera dalla drammaturgia certo particolare, affetta da una vacua frammentarietà ma non totalmente indigesta al gusto moderno come a lungo si è creduto.

Sorretta da un solido mestiere ma non sempre fantasiosa e brillante la direzione di Riccardo Frizza. Anche l'equilibrio fra palcoscenico e cantanti, in alcuni momenti, lasciava a desiderare. Sconcerta poi la soppressione della Sinfonia iniziale, brano orchestrale fra i più pensati dell'intero romanticismo italiano. Riguardo il cast, non tutti rispondono ai desiderata dei rispettivi ruoli. Jessica Pratt canta tutto o quasi in maniera impeccabile. Lo stile è perfetto, la vocalità luminosa, i sovracuti svettanti. Se qualcosa le manca è un maggiore coinvolgimento emotivo. Il timbro algido e la freddezza interpretativa non sono comunque del tutto inadeguati al personaggio, affetto da una castità che in alcuni momenti appare impermeabile a qualsiasi abbandono passionale (si pensi al duetto con l'amato nel secondo atto). Ismael Jordi è un Visconte di Sirval tutto spostato sul versante elegiaco. Il timbro è bello, il fraseggio morbido e scorrevole, la tecnica impeccabile. L'aria del secondo atto “se tanto in ira agli uomini” è cantata con grazia e dovizia di sfumature. Bruno De Simone è un Marchese irresistibile dal punto di vista scenico e attoriale, più discutibile per quanto riguarda la vocalità. Ketevan Kemoklidze sfoggia una bella voce di contralto, ideale per il ruolo en travesti di Pierotto. Nella sua interpretazione la ballata “per sua madre andò una figlia”, fra le pagine più suggestive dell'intera partitura, assume un rilievo inusitato. Roberto De Candia è un baritono brillante al quale è stato affidato un ruolo drammatico eccessivamente gravoso per il suo peso specifico. Ciò non toglie che la sua prova sia generosa e nel complesso apprezzabile. Christian Van Horn è un Prefetto dalla voce ampia ma un poco ingolata. Profondamente umana infine la Maddalena di Caterina Di Tonno. Piace la scenografia astratta creata da Daniel Bianco, che suggerisce le ambientazioni bucoliche senza mostrarle, tutta giocata su colori neutri e pastello, sulle atmosfere irreali e diafane. La trasposizione primo novecentesca, con l'automobile che fa il suo ingresso nel paesaggio naturale, non disturba, anzi sottolinea il contrasto fra innocenza ed esperienza, fra campagna e città al quale accennavamo in precedenza. Delude semmai il lavoro registico di Emilio Sagi, impacciato nei movimenti delle masse, incerto sulla gestualità dei protagonisti i quali sovente paiono abbandonati a se stessi. Il pubblico romano, sollecitato in una curiosità che credevamo perduta, ha dimostrato di apprezzare.

Riccardo Cenci

2/7/2016

Le foto del servizio sono di Yasuko Kageyama.