RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Che Nona, Gustav!

 

Plauso e trionfo di pubblico per il concerto inaugurale dell'Associazione Lingotto Musica, la sera di lunedì 21 ottobre 2013 qui a Torino: la Nona Sinfonia di Gustav Mahler, sotto la direzione del maestro Myung-Whun Chung, nell'interpretazione della Sächsische Staatkapelle di Dresda, non avrebbe potuto avere più largo consenso, giustificato non solo dalla scelta del lavoro, ma anche dalla qualità dell'esecuzione.

Sarebbe ridondante ripercorrere la genesi dell'opera, con un nozionismo quasi fine a se stesso, filologicamente interessante, ma emozionalmente sterile – basterà dire che si tratta dell'ultima sinfonia compiuta di Mahler, scritta di getto (ad una velocità sbalorditiva, considerata la vastità di concezione e di portata dell'insieme) nell'estate del 1909, quando ormai l'endocardite batterica aveva già minato la sua salute, e orchestrata l'anno successivo – in presenza di brani come questo, che trascendono gli schemi tradizionali della sinfonia classica per approdare ad esiti espressivi proiettati direttamente nel cuore dell'uomo stesso, o per lo meno dell'uomo Mahler, devono parlare le sensazioni. È stato detto più volte che, in tutte le sinfonie di Mahler, è possibile rintracciare l'intero percorso esistenziale della vita umana, un percorso a volte ascendente e trionfale, come nel caso della Seconda e della Quinta (in questo caso in evidente parallelo con la Quinta e la Nona di Beethoven), a volte rassegnato e pessimistico, come nel caso della Sesta. È possibile, a nostro avviso, ravvisare un percorso simile anche nella Nona, ma con la consapevolezza di essere arrivati alla fine della vita, di poter contemplare le vicende terrene come da una dimensione altra, compresa nel mondo eppure al di fuori di esso. Chi fosse punto dalla curiosità di vedere il luogo di nascita di questa sinfonia, dovrebbe recarsi a Carbonin Vecchia, una frazione a due chilometri da Dobbiaco, in Val Pusteria, uno di quei paesini piccoli, raccolti, arroccati come stambecchi sulle pendici delle Dolomiti: sarebbe sospeso allora in quella dimensione magica che servì da culla alla sua stesura. Dobbiamo immaginare dunque il compositore Mahler, isolato da tutto e da tutti (perfino dalla moglie, rimasta a Levico per delle cure termali), svegliarsi all'alba, quando ancora nessun rumore di attività umane turba la quiete della valle, e dirigersi, dal Maso Trenker, verso il bosco vicino, dove, come sua abitudine, si è fatto costruire un Häusche, una casetta di composizione, niente di più di una piccolissima casetta, costituita da un'unica stanza di due-tre metri di lato, appena sufficiente per contenere un pianoforte verticale ed un tavolo. Due note appena dei violoncelli, sostenute dal quarto corno, poi quattro note nel registro grave dell'arpa, ed ecco che, nel primo movimento della Nona, prendono vita i fruscii della vita del bosco che si sveglia, nelle sestine delle viole; pian piano il bosco si anima, e tutto viene tradotto in note. Poi un primo, timido raggio di Sole penetra tra le fronde, nella voce del secondo corno con sordina; infine, dopo questi accenni tematici, giacché non si può parlare di temi veri e propri, ecco una linea melodica cantabile, distesa, lunga, a volte esitante, nella voce dei violini secondi, e poi più avanti dei violini primi: Mahler, o comunque il nostro eroe sinfonico, si mette in cammino, passeggiando nella natura, che ama profondamente e della quale si sente parte. Crolli improvvisi di rocce, dal versante opposto della montagna, tradotti nei fortissimo a piena orchestra… Ma la commozione di fronte alla bellezza è tale che, allo scoppio dei piatti, si è certi che l'animo dell'eroe frema esclamando dentro di sé: quanto è sublime tutto ciò? In lontananza, come già accadeva in un'atmosfera per certi versi simile nel primo movimento del Titano, risuonano, nel timbro marziale delle trombe, echi di marce militari, ma come ammansite nella loro pomposità, rallentate, svuotate del loro significato militaresco. La guerra e le sue implicazioni, come le vicende della vita quotidiana, non riescono a irrompere nella rarefatta tranquillità dell'uomo in pace con la natura, ed è soprattutto lo stupore raccolto e rispettoso la cifra distintiva di questo brano. Procedendo di questo passo, avvertiamo più avanti rintocchi di campane: una chiesa, giù nella valle, scandisce nell'aria ancora fredda del mattino le ore che passano. Infine, una volata del flauto, che richiama quella analoga nel finale della Seconda Sinfonia, traduce forse il cinguettio di un uccello sui rami più alti di un abete.

Nel frattempo il nostro è arrivato in paese. Udiamo nel secondo movimento le movenze di un Ländler, tipica danza austriaca, più lenta e più rustica di un valzer, meno aggraziata di un minuetto (cui Haydn si era talvolta ispirato per i Trii delle sue sinfonie): e pare proprio vedere una sagra paesana, coppie e gruppi di ballerini ai quale l'eroe è lieto di unirsi, facendosi coinvolgere dalle danze, che diventano più frenetiche a metà del movimento ed infine riprendono la loro andatura originaria.

La visita al paese continua, ma a questo punto le cose vanno diversamente. Uno scherzo di cattivo gusto, un'ironia graffiante che sconfina nell'offesa, ridanciana eppure non comica, irrita l'eroe. Il timbro acidulo della tromba con sordina dà l'avvio ad un terzo movimento caotico, scoordinato, che sbeffeggia tutto e tutti. Per un momento l'eroe riesce a far ragionare il gruppo di ragazzi agitati e maleducati; ma è un attimo: la ridda riprende più accesa di prima e si conclude con vere e proprie violenze.

L'eroe capisce che, forse, non è più fatto per questa terra: gli competono ormai solo più le sue alture, la sua solitudine, dove può coltivare l'illusione che il mondo degli umani sia ancora un bel posto per vivere. Ecco allora l'Adagio conclusivo: dalla sua casetta di composizione, ritirata sulle alture, vediamo l'eroe contemplare il tramonto. Un tramonto struggente, in quell'attacco di tutti i violini all'unisono, da eseguire Sehr langsam cioè molto lentamente, per sottolineare la tensione verso l'infinito e l'abbandono. Pagina straordinaria, indimenticabile, vibrante, tutta modellata attorno a quell'unica frase iniziale degli archi e su poche altre (poco dopo l'inizio apprezziamo una minacciosa frase sprofondata nel registro grave di uno strumento grave, il fagotto, e più avanti di uno ancora più grave, il controfagotto, che si conquista, come in pochissimi altri casi nella storia della musica, una breve parentesi solistica). È l'estrema preghiera di un uomo che ricorda, rimpiange, e nel finale tende la mano verso l'orizzonte e continua a dire al Sole, al suo passato, alla vita, e, quando l'anno dopo la moglie Alma lo tradirà, all'amore: Non andartene! Non andartene! Ma il Sole tramonta, e la giornata si chiude con le prime stelle che compaiono alte, nel limpido cielo montano, con la serenità di chi, come loro, riesce a stare al di sopra di tutto.

E che cos'è, questo quadro, se non il riassunto della vita dell'uomo? L'innocenza e lo stupore dell'infanzia, (primo movimento), la vitalità ancora non contaminata della prima giovinezza (secondo), gli eccessi e la sregolatezza di chi si sente padrone del mondo e non avverte la fragilità della vita dietro ogni angolo (terzo) e lo sguardo malinconico della vecchiaia (quarto): o meglio, non della vecchiaia, ma di chi sente arrivare la fine e, umanamente, cercando di aggrapparsi alla vita, dicendole Non andartene … ha paura.

Partitura alla mano, la direzione di Chung (a memoria) si segnala per la notevole chiarezza nella conduzione delle parti (soprattutto nella sezione degli archi), ben riconoscibili ancorché nascoste tra le pieghe dell'accompagnamento, e per il rispetto quasi completo alle dinamiche indicate dal compositore, eccezion fatta forse nell'ultimo movimento, che ci è parso in alcuni punti ancora troppo veloce e tendente ad un volume sonoro eccessivo, nonostante alcuni passaggi indicati pppp. Sono stati eseguiti alcuni ritenuti qua e là non indicati, ma ci sono parse scelte condivisibili volte ad una maggiore resa espressiva. Il primo movimento, il meglio diretto a nostro avviso, si attesta sui 29', allineandosi con la direzione di Halász, con i suoi 28'57'', e con quella di Inbal, con i suoi 28'16'', benché la direzione più espressiva sia quella di Eschenbach, reperibile anche su YouTube, che tocca i 33'. Il secondo movimento è stato perfettamente nella media, con i suoi 16' circa, e, nonostante sia sembrato leggermente affrettato, ha ben espresso la sua intrinseca rudezza. Il terzo ha raggiunto i 13', mentre l'ultimo, con i suoi 25', nonostante dovesse essere l'acme di tutta l'opera, ci è sembrato il meno coinvolgente, forse anche per l'accordatura non più perfetta degli archi, comprensibilmente provati dopo una partitura di questa durata. Nel complesso, si tratta di dettagli che non hanno scalfito il notevole livello della lettura del maestro Chung.

Christian Speranza

12/11/2013

Le foto del servizio sono di Pasquale Juzzolino.