Omaggio a Puccini
La Bohème al Bellini di Catania
I critici musicali, ma in generale moltissimi dei personaggi che si aggirano nelle redazioni dei giornali o in tempi moderni per il web, collaborando a quella che una volta veniva chiamata terza pagina, cioè la pagina culturale in senso lato, non sono alieni dal prendere, e non tanto di rado, cantonate colossali, spesso dettate da incompetenza (molti critici musicali non hanno nemmeno una vaga idea di cosa sia un pentagramma o un diesis), da antipatie e simpatie, da campanilismi, ed è un classico da citare negli annali il caso di un sedicente critico isolano del passato, solito elogiare pertichini e cantanti locali, riservando alla primadonna (nella fattispecie Maria Callas) un laconico bene la Callas, oppure ancora, specie in tempi di crisi (ma già Balzac conosceva ampiamente questo costume) costoro vengono mossi da poco confessabili collisioni economiche o da severi ammonimenti dei direttori editoriali, timorosi di perdere pagine e pagine di pubblicità… Naturalmente, quando questi personaggi si imbattono in un'opera nuova o in cantanti molto giovani che in capo a uno-due anni diventeranno mostri sacri della lirica, incappano in una sorta di damnatio memoriae esattamente contraria alla sparizione dai testi che l'espressione indica in filologia classica, nel senso che vengono consegnati alla storia della critica come esempi omnicitati di idiozia, scarsa lungimiranza e totale incompetenza. È questo il caso di Carlo Bersezio, giornalista, librettista e compositore, all'epoca venticinquenne, dunque con un udito ben funzionante, almeno da un punto di vista fisiologico, che all'indomani della prima de La Bohème di Giacomo Puccini, andata in scena al Regio di Torino il 1° febbraio 1896, diretta da un giovane direttore, tale Arturo Toscanini, così scriveva, consegnando il suo nome alla storia del melodramma, e non certo per la sua lungimiranza: “… la Bohème come non lascia grande impressione sull'animo degli uditori, non lascerà grande traccia nella storia del nostro teatro lirico…”. La Bohème lasciò così poca traccia nel teatro lirico che ancor oggi è tra le opere più rappresentate in tutto il mondo, tra le più amate dal pubblico e citata, insieme a Tosca e a Madama Butterfly, come uno dei capolavori del compositore lucchese.
Ed è appunto con La Bohème che il Bellini di Catania ha deciso di inaugurare il 26 novembre la stagione di opere e balletti 2022/2023, offrendo al numeroso pubblico intervenuto un'edizione per molti versi pregevole sia sotto il punto di vista musicale che scenico, confermando ancora una volta come una buona regia tradizionale possa rivelarsi più coinvolgente e adatta a quell'unicum ibrido che è il melodramma di tante cervellotiche superfetazioni ipermoderne che affliggono teatri ben più blasonati.
L'allestimento, curato dal Teatro Massimo di Palermo, per la regia di Mario Pontiggia, evidenziava sin dall'inizio un'attenta lettura del dettato del libretto, sia per quel che riguardava le scene, pittoresche ma molto funzionali, di Antonello Conte, sia per la direzione drammatica dei cantanti e delle masse corali, privilegiando la verosimiglianza e, specie nei primi due quadri, la spensieratezza tutta giovanile che Murger aveva descritto nel suo Scènes de la vie de bohème; una lettura, quella di Pontiggia, incentrata sulla psicologia dei personaggi, sullo stridore tra l'allegria, i colori e le luci del bar Momus e la cupa desolazione della Barrière d'Enfer, dove una scarna scenografia, limitata all'essenziale, i pochi movimenti, rattenuti e anch'essi come rattrappiti dal gelo di febbraio, e gli abiti, curati da Francesco Zito, con i loro colori spenti, smorti come un'alba invernale, lasciano che a creare tutta l'atmosfera sia la musica di Puccini. Pontiggia sembra aver compreso perfettamente che la scelta pucciniana di sostituire i quadri agli atti tradizionali, quasi pennellate brevi e intense atte a fissare un momento icastico dell'esistenza dei protagonisti, altro non è che il risultato estremo di un processo di stringatezza e sintesi, di predominanza della psicologia sul movimento scenico puro e semplice, che come tale necessita di misura e compostezza, quasi di un silenzioso farsi da parte del regista, lasciando che a parlare e a manifestarsi appieno sia il singolo personaggio con il suo tema ricorrente, con il carattere impressogli dalla musica, agevolando magari i contrasti come nel quarto quadro, dove i costumi primaverili dei protagonisti sono quasi un tentativo di esorcizzare la tragedia incombente.
Sul fronte musicale, la direzione di Fabrizio Maria Carminati ha saputo creare un buon equilibrio tra la buca e il palcoscenico, in special modo per la scelta dei tempi, che non hanno mai penalizzato i cantanti, e la ricerca di un colore orchestrale che ben rendesse sia la continuità che il contrasto tra i singoli quadri. Sempre precisi gli attacchi e ottima la prova degli archi, così come quella dei fiati, dove hanno spiccato il primo flauto e l'oboe; da segnalare anche la morbidezza degli interventi dell'arpa, strumento che ha non poco contribuito a ricreare l'atmosfera soffusa e dolorosa dei momenti più commoventi dell'opera. Di rilievo anche la prova del coro, diretto da Luigi Petrozziello, che ha ben reso l'atmosfera rutilante e festaiola del secondo quadro, insieme alle voci bianche dirette da Daniela Giambra. Quanto ai cantanti, Valeria Sepe ha tratteggiato una Mimì dolce e appassionata, non scevra da elementi tragici, specialmente nel quarto quadro, dando prova di grande musicalità, di una tecnica di prim'ordine e di un uso sapiente delle mezze voci, senza mai privilegiare l'aspetto vocale su quello drammatico in senso stretto, ma anzi curando in modo particolare la gestualità e muovendosi sulla scena con grande disinvoltura. Jessica Nuccio è stata una Musetta vivace e scanzonata, pur se una vocalità più attenta e rifinita, in special modo nei legati, le avrebbe permesso una miglior resa della celeberrima “Quando men vo…” cui è mancata quella inebriante civetteria, anche vocale, che Puccini vi aveva infuso complici anche i tormenti sillabici e versificatori che imponeva a Giacosa e Illica.
Ottimo il Marcello di Vincenzo Taormina, anch'egli a suo agio nella resa drammaturgica, baritono di grande estensione vocale, provvisto di una dizione chiarissima e di un perfetto controllo dei fiati, morbido nell'emissione e sempre ben coperto in zona acuta. Bene anche George Andguladze, Colline, basso non molto profondo ma musicalissimo, che ha suscitato calorosi consensi con “Vecchia zimarra”, così come Italo Proferisce, che ha reso con entusiasmo coinvolgente la parte del musicista Schaunard. Da segnalare infine la prova di Andrea Tabili, basso del timbro oscuro ma possente, nel doppio ruolo di Benoit e Alcindoro.
Ma la vera stella di un cast per molti versi eccellente, un vero e proprio Rodolfo d'altri tempi, per morbidezza di emissione, per eleganza vocale, per egregio controllo degli acuti, è stato Giorgio Berrugi, che sin dal primo quadro, sia con “Che gelida manina” sia nel duetto con Mimì, ha suscitato vere e proprie ovazioni: tenore dalle qualità ormai rare, attento più alla bellezza del suono che all'esibizione di possanza vocale, immune dal terribile vizio di anticipare che affligge la maggior parte dei tenori, vizio che rende le note aspre e quasi strappate, Berrugi indugia invece sulla melodia, adagiando la voce su di essa, senza mai precipitare, attento all'acuto sempre coperto, mai stridulo, evidenziando una tavolozza agogica anch'essa rarissima in tempi dove molti tenori sembrano aver dimenticato che esistono le mezze voci, i piano, i pianissimo, la cura del recitativo, ricercando solo quel compiacimento per la potenza vocale che una volta fece dire a Riccardo Muti durante una prova: “Faccia il cantante, non il tenore!”.
Repliche sino a domenica 4 dicembre.
Giuliana Cutore
27/11/2022
Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.
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