Omaggio all'Ungheria
L'ungherese, si sa, è uno degli idiomi più difficili e incomprensibili del panorama linguistico europeo; ma quando a parlare è la musica, quella si capisce dappertutto, pur conservando, potremmo dire, gli usi e i costumi del Paese dove è stata composta, pur vestendosi della bandiera in cui si avvolge il cuore del compositore. Il diciannovesimo appuntamento in compagnia dell'OSN (10 e 11 aprile 2014), all'Auditorium RAI Arturo Toscanini, lo ha ben dimostrato con un programma tutto dedicato all'Ungheria. Tutta la prima parte della serata è stata dedicata a Liszt; e, almeno su larga scala, chi dice Liszt, dice pianismo acrobatico (escludendo così tutti i Poemi sinfonici, la musica sacra, vocale e gli esperimenti sinfonici del poliedrico Franz). Per l'occasione è stata scelta Valentina Lisitsa, diretta da John Axelrod, in gran forma dopo essersi recentemente congedato dagli aficionados dell'OSN con la Leningrado di Šostakovic.
Apre il concerto la Fantasia su temi popolari ungheresi per pianoforte e orchestra, sorta di pot-pourri variegato in cui diversi spunti melodici si alternano, proposti dall'orchestra, ripresi, variati e ricamati dal pianoforte. Composizione piuttosto prevedibile e di sicuro impatto, almeno per l'epoca, che si allinea ai diversi tentativi nazionalistici di far conoscere la musica del proprio Paese in un modo che rendesse giustizia sia al repertorio popolare, sia al solista (che quasi sempre era anche l'autore): sulla stesso piano si colloca per esempio la Fantasia su arie polacche in la maggiore per pianoforte e orchestra Op. 13, composizione di uno Chopin ancora giovane che ancora sognava un avvenire da pianista-concertista.
Si prosegue con la Totentanz, composizione molto più cupa rispetto alla precedente e dotata di maggiore originalità, in cui Liszt, suggestionato dal potere evocativo del Dies iræ gregoriano, inanella una serie di funamboliche variazioni per pianoforte, in piena adesione a quel revival romantico del Medioevo cui non sfugge neanche Berlioz, quando utilizza lo stesso tema per il finale della Symphonie fantastique ; per non parlare, passando per un fugace accenno fatto da Mahler nel Finale della sua Seconda Sinfonia, di Rachmaninov, che nella sua Rapsodia su un tema di Paganini Op. 43 trasforma, attraverso una serie di variazioni, il Ventiquattresimo Capriccio Op. 1 di Paganini fino a fargli assumere proprio le sembianze del Dies iræ gregoriano; e quando Bergman, nel Settimo sigillo, vorrà mettere in scena una visione oscurantista del Medioevo, ricorrerà anche lui a questo tema.
Mentre nella Fantasia la direzione d'orchestra e la solista procedono su una linea soddisfacente, con gli archi gravi ben compatti e robusti in apertura, il suono ampio e deciso del pianoforte, da dominatrice della tastiera, capace di una bravura straordinaria come pure di sapersi nascondere dentro le pieghe del tessuto orchestrale, con il finale obbligatoriamente in coincidenza con il climax emozionale del pezzo (non si dimentichi che questo tipo di composizioni, piuttosto esteriori, erano fatte per strappare l'applauso del pubblico) condotto accelerando, nella Totentanz vengono adottate dinamiche e agogiche non totalmente condivisibili. Parlando partitura alla mano, non vi sono indicazioni di rilevare determinati passaggi orchestrali che invece Axelrod evidenzia (in almeno due momenti distinti i corni emergono in modo preponderante, senza però, a nostro parere, condurre il discorso melodico: detto in altri termini, come se avesse fatto prevalere l'”accompagnamento” sulla “melodia”). Gli ottoni, esponendo il tema, sono estremamente spinti, e ciò può essere comprensibile in una logica che intenda esacerbare le possibilità drammatiche di questo tema e di questa orchestrazione; ma, a fronte di un attacco insolitamente veloce, con cadenze da togliere il fiato, altre variazioni vengono condotte, non si capisce perché, molto più lentamente, sottraendo espressività. Notiamo anche, in diversi punti, un'equiparazione dei piani sonori dell'orchestra e del solista, in un pezzo volto (a differenza per esempio di brani più sperimentali di Liszt stesso, come il Secondo Concerto) a far emergere il solista, non ad integrarlo al discorso orchestrale (teniamo presenti anche le doti da showman di Liszt, dove il pianista era da vedere, oltre che da ascoltare).
Sia come sia, si tratta di un brano destinato a strappare (oltre che le mani al pianista…) un applauso entusiasta e la Lisitsa si dimostra generosa di brani fuori programma: la celebre Ave Maria di Schubert, nella trascrizione pianistica da Liszt, che infiora il tema, presentato nel registro violoncellistico della tastiera (da vox humana) di delicati arabeschi che ricordano gli arpeggi dello studio Un sospiro, e La Campanella, studio lisztiano di bravura derivato da Paganini, del quale esistono per la verità due versioni: quella presentata in concerto, cavallo di battaglia della pianista ucraina, è la più famosa delle due (la seconda è talmente infarcita di difficoltà gratuite, da risultare meno piacevole all'ascolto); venerdì, invece, accanto all'Ave Maria di Schubert/Liszt, opta per i numeri che chiudono le raccolte degli Studi Op. 10 e Op. 25 di Chopin: ancora, se vogliamo, un omaggio all'Ungheria, l'Op. 10 essendo stata dedicata da Chopin a Liszt, l'Op. 25 à la comtesse Marie d'Agoult, all'epoca amante dello stesso Liszt…
Nonostante tutto questo sfoggio di bravura, però, giacché una due-giorni di Liszt è oggettivamente impegnativa, ci si chiede se il virtuosismo della Lisitsa non si riduca a mera esibizione. Soprattutto nella Campanella e in certi punti della Totentanz, ci rende conto che la sua bravura è arrivata ad un livello tale, da permettersi di eseguire, potremmo dire, quasi senza impegno pezzi di una difficoltà inaudita. Il rischio è quello di perdere la percezione di questa difficoltà, di ridurla a mera esecuzione esteriore, e di conseguenza di svuotare questi brani del loro valore, che, pur andando oltre il puro dato tecnico, pure lo comprendono e ne fanno una componente della loro espressività.
Archiviato il pianoforte, la serata prosegue con le Danze di Galanta di Zoltan Kodály, il brano cronologicamente più vicino a noi (1933): e più ancora di Liszt, Kodály si immerge in un lavoro di vera e propria etnomusicologia: questa straordinaria suite di danze è uno dei risultati cui approda, talmente trascinante, che verrebbe davvero da alzarsi e incanalare l'energia sprigionata dalla musica in movenze vitali e scatenate, ancorché scoordinate. Un brano brioso, spumeggiante, in cui si riconoscono influssi dell'orchestrazione di Borodin, di Rimskij-Korsakov e dei compositori di area slava. Axelrod si trova a suo agio alla direzione di un brano del genere. L'orchestra è mantenuta costantemente piena, viva; gli archi vibrano di una passione intensa e sfrenata. Le danze centrali vengono in questo senso accelerate e caricate come dei furiant boemi; appena un attimo per la parentesi onirica del flauto, che col suo intervento concede una breve tregua, e poi via, verso l'accelerazione finale.
Chiude il concerto una serie di Danze Ungheresi di Brahms trascritte per orchestra. Tra quelle presentate, solo la n°1 è stata orchestrata dall'autore; le altre hanni subìto l'intervento di mani differenti: la n°2 e la n°7 sono state presentate nella veste orchestrale di Andreas Hallén, la n°5 e la n°6 in quella di Albert Parlow. È interessante notare come il diverso stile di orchestrazione richiami alla mente diversi contesti, pur sempre legati alla stessa espressività ballabile. Nella n°1 e nella n°2 prevale l'afflato degli archi, e siamo stati pervasi da quella dolorosa eppur piacevole esperienza estetica che ha luogo quando ci si rende conto dell'impossibilità di rivivere un'emozione: in una parola, un'esecuzione meravigliosa. La n°4 viene diretto con la grazia che si accorderebbe ad un valzer viennese alla Strauss, e nei punti più animati è sembrato quasi di ascoltare una Polka-Schnell; la decisione di anticipare la n°6 prima della n°5 è stata presa, probabilmente in vista della prepotente notorietà di quest'ultima, che ha concluso in bellezza il concerto, cui ha fatto seguito un applauso interminabile. Concluso, a dire il vero, no: sia giovedì, sia venerdì, in coda alle Danze Ungheresi, Axelrod ha concertato (è il caso di dirlo…) con l'OSN un fuori programma orchestrale: la Rapsodia Ungherese n.2 in do diesis minore di Liszt, nell'orchestrazione dell'autore stesso: senza dubbio una sorpresa, che avrebbe potuto essere prevista solo da un occhio attento: l'arpa, presente sul palco fin dall'inizio del concerto e mai toccata per tutto il programma, sarà pur stata messa lì per un motivo: proprio per il finale a sorpresa!
Christian Speranza
8/5/2014
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