RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Lohengrin alla Scala: il dramma svelato

 

Lohengrin fu la prima opera di Wagner ad essere eseguita in Italia, nel 1871, al Teatro Comunale di Bologna. Popolare in Europa, lo divenne anche nel nostro paese, dove fino agli anni Sessanta fu cantata in lingua Italiana avvalendosi di voci illustri come quella di Italo Cremonini, Fernando De Lucia, Aureliano Pertile, celebri tenori che nei panni del Cavaliere del Cigno ottenero successi significativi. Pur tuttavia contribuirono ad avallare una versione che non rendeva giustizia al Lohengrin e adattava il mélos wagneriano a stilemi tipici del canto italiano. Alla Scala la prima esecuzione in lingua originale risale al 1953, diretta da Herbert von Karajan, e da allora (pur con l'eccezione del l'allestimento del '57 con Mario Del Monaco nel ruolo del titolo) la Scala ha conosciuto produzioni di alto livello che hanno permesso di conoscere sempre meglio le caratteristiche specifiche del Lohengrin, tra cui le ultime due, quella del 1981, ripresa nel 1983, diretta da Claudio Abbado con la regia Giorgio Strehler, e quella del 2007, diretta da Daniele Gatti, con la regia di Nikolaus Lehnoff.

L'attuale produzione si inserisce a pieno titolo in una gloriosa tradizione, rivelando si capace di dare un ulteriore contributo all'approfondimento del significato del Lohengrin .

Lo spettacolo era firmato Claus Guth, con le scene e i costumi di Christian Schmidt, le luci di Olaf Winter, la coreografia di Volker Michl e la drammaturgia di Ronny Dietrich. Guth procede ad una rilettura molto efficace del Lohengrin, che a Milano ha suscitato discussioni destinate però solo a provare l'arretratezza di un milieu in ritardo, rispetto all'indirizzo del teatro europeo. Guth trasporta l'azione nell'Ottocento. L'ambienta in uno spazio delimitato dalle facciate di un grande palazzo con ballatoi praticabili: un'architettura severa di evidente sapore guglielmino. I costumi vanno di conseguenza, ma l'intento non è storicistico. Non a caso le luci conferiscono alla struttura un aspetto a tratti spettrale, comunque, contribuiscono a sottrarla ad ogni utilizzo meramente illustrativo. Qui si svolge l'azione, scandita da una serie di evidenti simbologie. Guth crea un forte contrasto tra Lohengrin - debole e diverso (per questo più forte)- e la società che lo circonda. In questa società Ortrud e Telramund hanno facile gioco nell'insinuare il dubbio, nel minare la credibilità del Cavaliere. Sono organici alla sua ipocrisia e all'intimo paganesimo, all'idolatria che la pervade. In questa società la cavalleresca correttezza del re, Heinrich der Vogler, non penetra il mondo di Lohengrin e non lo aiuta: rimane congelata nella sua formalità. Guth accosta Ortrud a Cosima. Eleva la seconda moglie del Compositore a simbolo di mercificazione filistea che si oppone alla purezza dell'arte e, di conseguenza, a quella di Lohengrin. E' evidente allora la metafora del pianoforte verticale ben in vista sulla scena: prima in giusta posizione, poi, dopo il disastro del segreto forzato, rovesciato. Allo stesso modo mi sembra accettabile che la camera nuziale possa essere sostituita da un idilliaco paesaggio campestre, dove Lohengrin ed Elsa, come ragazzi liberi, si dichiarano il loro amore, mentre l'eroe bagna i piedi nel ruscello. D'altronde non è senza significato fare muovere Lohengrin a piedi nudi. Lohengrin è un viandante che bussa alle porte di uomini non capaci di accoglierlo o, che credendo di accettarlo, lo vogliono ridurre alla loro statura. La sua debolezza, fatta di gesti impacciati e tremanti, il mettersi rannicchiato, come in posizione fetale, il muoversi smarrito sono l'equivalente della corazza d'argento che, con realismo naturalista, rivestiva l'eroe, ma che ora il regista sostituisce giustamente, rivelando al pubblico di oggi, figlio della psicanalisi, il significato del travestimento, ancora necessario nell'Ottocento. Non ha bisogno invece di decodificazione il fratello di Elsa, il principe di Brabante, che Ortrud ha trasformato in cigno. Può bastare un adolescente con un ala di cigno appiccicata sul braccio.

Daniel Barenboim dirige con viva partecipazione un'Orchestra e un Coro capaci di meraviglie. E una lettura improntata a grande teatralità. Ancora una volta ci sembra che la specificità di Barenboim sia quella di costruire letture che vivono il momento e si sentono appagate, dalla precisione degli accompagnamenti, dal suono ricco che esce dal golfo mistico, dallo slancio dei passi più esaltati, dal perfetto funzionamento della grande macchina che gli viene affidata. Siamo di fronte ad un'esecuzione travolgente, che affascina all'ascolto e che ti entusiasma. Tutto è al suo posto, fin dal Preludio, dove Baremboim lancia l'orchestra in un' avventura musicale che è già esaltante al primo accordo. Eppure questo eccellente Lohengrin non si fa interpretazione di riferimento, quasi che gli mancasse la carica di una lettura che superi l'esecuzione.

Joanas Kaufmann invece è un Lohengrin di riferimento, il migliore che sia ascoltato dai tempi di Sandor Konya e uno dei migliori del secolo scorso e del primo scorcio del XXI. Lo è in virtù di una voce particolare che, lavorata ad arte da una eccellente tecnica, gli permette di adattare il suo strumento alle richieste di una vocalità esigente. E un Lohengrin virile, capace di dare incisività ai passi più concitati, vale a dire gli scontri con Telramund, di dare fierezza a quelli più nobili, come il celebre racconto del II Quadro del III Atto, di conferire alla melodia un velo di angosciosa mestizia, come accade nella scena della camera nuziale, quando lo incalzano le domande di Elsa, di piegare la voce alla dolcezza del canto a fior di labbro, dove richiesto dalla situazione, a cominciare dal saluto al Cigno. Il timbro stesso, con quella prima ottava tanto particolare, conferisce fascino al personaggio, mentre la tessitura, da lirico spinto, calza alla perfezione al tenore tedesco che la onora senza forzare, ma anche senza avvilirla con sonorità inadatte. A tanta bravura si aggiunge la bellezza della figura e l'arte dell'attore credibile nella difficile lettura imposta dal regista doti che, sommate al canto, gli fanno disegnare un Lohengrin umanissimo eppure giustamente straniato, senza però che la diversità si congeli in forme ieratiche, alla Windgassen, per intenderci che non corrisponderebbero alla lettura di Guth e di Barenboim, ma neppure al gusto moderno. Siamo così di fronte ad una magnifica incarnazione del tipo dell'Heldentenor, il tenore eroico, che Wagner plasmò per rispondere alle esigenze dei suoi drammi.

Nella recita del 14 dicembre, Elsa era sostenuta da Ann Peterson subentrata in sostituzione della Arteros, che già aveva dovuto rinunciare alla prima. E un'Elsa validissima nell'impostazione del canto e nell'interpretazione che aderisce alle esigenze dell'allestimento. La voce però non ha sonorità preziose e nei passi concitati che sfogano nell'acuto ci sono sonorità acidule mentre in altri casi, penso all'apparizione del II Atto, ‘Euch Lüften', non può trovare suoni trasparenti, come esigerebbe il notturno e l'aereo strumentale.

La coppia dei malvagi si è dimostrata molto efficace. Evelyn Herlitzius ha la grinta necessaria per essere una Ortrud cattiva e per aderire ad una tessitura anfibia che rende assai difficile collocare questo personaggio in una corda vocale ben definita, benché Wagner l'assegni al soprano. Il suo canto è insinuante, incalzante quando occorre, persino rabbioso, ma sempre racchiuso una sorta di gelo che giustamente lo protegge dagli eccessi. Grazie anche all'eccellente recitazione la Herlitzius disegna un personaggio implacabile e indomito che persegue fino all'ultimo il proprio obiettivo e da adeguato rilievo alle scene in cui è coinvolta, a cominciare dal grande Duetto con Telramund che apre il II Atto. Tomas Tomasson è un Telramund determinato e impetuoso, sempre credibile, anche se la sua interpretazione è sostanzialmente sommaria sia sotto il profilo scenico che sotto quello vocale dove Beckmesser avrebbe giustificate ragioni per battere il gesso di fronte a note non sempre ortodosse.

René Pape è Heinrich Der Vogler. Si tratta del miglior basso wagneriano in circolazione. Canta con correttezza, anche se qualche nota del registro acuto non è sempre ben posizionata e suona scollata dal resto della voce. Pur tuttavia il timbro chiaro, molto vicino a quello di Tomanson e di Lucic, der Hererrufer, l'Araldo, non giova alla definizione del personaggio che trarrebbe grande vantaggio da un timbro più scuro.

Allo spettacolo è arriso uno strepitoso successo, a dimostrazione dell'inutilità delle polemiche giornalistiche sull'opportunità di aprire la stagione 2012/13 del Teatro alla Scala con un titolo wagneriano e non verdiano.

Giancarlo Landini

1/1/2013