Gran finale con Mozart e Lonquich
Concerto di fine stagione dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Il ventitreesimo ed ultimo appuntamento dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) ha offerto al suo pubblico una doppia – e ghiottissima – occasione di ascolto: anziché replicare gli stessi brani nella sera di giovedì 22 e venerdì 23 maggio 2014, ha preferito presentare due programmi diversi, egualmente interessanti. A fare da trait d'union, i nomi del compositore e dell'interprete: due serate completamente dedicate a Mozart, comprendenti ciascuna una Sinfonia e due Concerti per pianoforte e orchestra, con Alexander Lonquich nella doppia veste di solista e direttore. Abbiamo ascoltato così il Concerto n°17 in sol maggiore KV 453, la Sinfonia n°36 in do maggiore KV 425 “Linz” ed il Concerto n°22 in mi bemolle maggiore KV 482 nella prima serata; il Concerto n°14 in mi bemolle maggiore KV 449, la Sinfonia n°38 in re maggiore KV 504 “Praga” ed il Concerto n°24 in do minore KV 491 nella seconda serata.
Una cernita che pesca nella produzione matura, viennese, di Mozart, quella in cui più splende la luce del suo genio. E Lonquich, da parte sua, ha contribuito a renderla ancor più interessante introducendo i brani, microfono alla mano, in perfetto italiano. All'auditorium Arturo Toscanini Lonquich non è nuovo a questo genere di full immersion: già nel 2009 aveva presentato in cinque appuntamenti il ciclo completo delle Sinfonie di Schubert e dei Concerti per pianoforte di Beethoven, sempre come solista-direttore e previa introduzione in stile colloquiale (ma non banale) di ciascuna composizione (con tanto di passaggi estratti da lettere e diari dei compositori). È una cosa, questa, che abbiamo apprezzato particolarmente: senza scendere troppo nei particolari tecnici, Lonquich è riuscito ad inquadrare il “personaggio” Mozart (spesso bistrattato, spesso oscillante nell'immaginario comune tra un parruccone incipriato icona del Settecento, in grado di essere compreso solo dagli “addetti ai lavori”, e il ridanciano eterno Peter Pan immortalato da Tom Hulce nel film Amadeus di Forman) quale uomo, rivelando anche particolari di vita quotidiana, come l'acquisto di uno storno e la citazione del suo verso nel tema del terzo movimento del KV 453, e quale artista, narrando per esempio che il clima cupo che aleggia sul Concerto KV 491 (il preferito di Liszt, tra l'altro) sarebbe stato ispirato, secondo un biografo tedesco, dal fatto che, negli stessi giorni della composizione, si sarebbe consumata un'esecuzione in una pubblica piazza a Vienna. Un'operazione che si dovrebbe fare più spesso, per avvicinare il maggior numero possibile di persone al mondo della musica classica, facendo superare pregiudizi fondati in gran parte sull'ignoranza. Il fatto stesso che una persona sola diriga l'orchestra ed esegua la parte solistica è quanto di più vicino, filologicamente parlando, ci possa essere alla Vienna del secondo Settecento, dove il concerto per pianoforte era stato eletto da Mozart il mezzo più efficace per sponsorizzare la propria bravura in termini di compositore, direttore ed esecutore nelle famose “accademie”, o concerti per sottoscrizione (gli antenati dei moderni concerti con prevendita di biglietti): con un po' d'immaginazione non sarebbe stato difficile vedere, in Lonquich in piedi a dirigere gli interventi orchestrali, e poi seduto a dirigere dal pianoforte, Mozart redivivo che fa a meno della figura istituzionale del direttore. La cadenza del secondo movimento del Concerto KV 453 è stata eseguita, ad esempio, con diverse pause lunghe, ad imitazione di una vera e propria improvvisazione, secondo l'uso del tempo.
La scelta dei brani, dicevamo, si è concentrata sulla produzione matura di Mozart. Le due sinfonie, la “Linz” e la “Praga”, sono rispettivamente la trentaseiesima e la trentottesima, su quarantuno (numerate) del catalogo: il che significa che, dopo la “Praga”, datata 1786, dovremo saltare fino alla stupefacente triade finale, il cosiddetto “Schwanengesang” (il “Canto del cigno”, la “grande in sol minore” e la “Jupiter”, che risalgono all'estate del 1788. Due anni senza scrivere sinfonie: dato in apparenza irrilevante; ma in un compositore a getto continuo come Mozart, autore di più di seicento composizioni, morto a trentacinque anni, un biennio senza frequentare un genere compositivo sono un'eternità. Confrontando i numeri di catalogo, che nel lavoro d'ordinamento di Köchel dànno un'idea dell'ordine cronologico delle composizioni, il fenomeno è ancor più evidente: negli ultimi anni la produzione sinfonica di Mozart si fa via via più rarefatta, più meditata: se la “Linz” corrisponde al KV 425, la “Praga” si attesta già al KV 504, e quella subito dopo, la trentanovesima (lo Schwanengesang, appunto), sarà catalogata col KV 543: come se, avviandosi verso gli ultimi capolavori, Mozart si fosse reso conto che al genere della sinfonia era da affidare un messaggio più elevato, più denso, rispetto a quello da riporre nelle note di composizioni più di consumo (Divertimenti, Serenate, ecc., che pure abbondano nella produzione mozartiana): intuizione perfettamente raccolta da Beethoven, e più in là da Brahms, Bruckner, Mahler, giù giù fino a Šostakovic: sinfonisti in cui il numero di sinfonie è subordinato al significato espressivo e ad un'ispirazione profonda, lungamente pensata. Ne è un esempio il primo movimento della “Praga” (scritta quale omaggio alla città che avrebbe ascoltato per prima Le nozze di Figaro, acclamandone a tal punto l'autore, che l'impresario teatrale avrebbe ingaggiato per l'anno successivo, il 1787, lo stesso binomio Mozart-Da Ponte per una nuova première: quella del Don Giovanni; la stessa scelta di tagliare la sinfonia in tre movimenti anziché nei soliti quattro, poi, testimonia l'attenzione per le consuetudini locali, abituate al vecchio modello di sinfonia in tre, tipica anche di alcuni lavori giovanili Mozart): organico comprendente trombe e timpani, introduzione lenta le cui movenze sanno di ouverture di opera seria (basti confrontare quelle dell'Idomeneo e della tarda Clemenza di Tito), come se si stesse per sollevare il sipario su una grande rappresentazione impegnata. Stessa cosa dicasi per l'introduzione lenta della “Linz” , il cui ritmo puntato impolvera l'andamento paludato dell'orchestra di una cipria händeliana, quella degli Oratori. In entrambe le introduzioni Lonquich predilige il tono austero. Nella “Praga” i perentori rintocchi iniziali ricordano il Commendatore che bussa alla porta alla fine del Don Giovanni.
La drammaticità è la cifra distintiva dell'interpretazione di Lonquich, sottolineata soprattutto nelle oscillazioni da maggiore a minore, che già preannunciano le tensioni della Seconda Sinfonia di Beethoven. Il volume sonoro è forse eccessivo, trattandosi comunque di una sinfonia mozartiana, e qua e là fa capolino una certa stridulità delle trombe; punti di forza si sono rivelati invece il dialogo chiaro ed efficace dei fiati, in quei passaggi ricamati come merletti che cercano di affrancarsi da una pagina che predilige il timbro degli archi. Segnaliamo infine l'esecuzione integrale di tutti i ritornelli ed un certo trasporto già romantico nel secondo movimento. Più convenzionale la direzione del terzo, in cui però non mancano, nel bilanciamento dei timbri orchestrali, accenti di spiccata personalità. Una certa impressione di affrettato, di precipitoso, si è stesa invece sull'esecuzione della “Linz”, sia nel primo, sia nel secondo movimento, laddove avremmo preferito una lettura più pacata e più seriosa. Appropriata invece la scelta del tempo nel terzo movimento, in cui segnaliamo il delizioso dialogo dei fiati nel Trio. Da segnalare anche l'esecuzione del ritornello richiesto nell'ultimo movimento. Tra i ventisette Concerti per pianoforte e orchestra, quelli presentati da Lonquich offrono la possibilità di scoprire diversi lati (alcuni anche poco frequentati) del Mozart tastieristico. Si passa dai più cameristici KV 449 e KV 453, al KV 482, dal taglio ormai decisamente sinfonico, fino allo stupefacente KV 491, una delle poche volte in cui Mozart tocca senza schermi le corde del tragico. Ed è interessante notare, accanto a questa varietà stilistica, come anche l'organico venga modificato: nel KV 449, scritto nel febbraio del 1784 (il primo dei sei Concerti che avrebbero visto la luce in quell'anno, il più produttivo in assoluto per quanto riguarda questo genere compositivo), oltre al pianoforte solista e agli archi contiamo soltanto oboi e corni “a due”; nel KV 453, scritto nell'aprile di quello stesso 1784, i fiati si allargano a comprendere, oltre a oboi e corni, anche flauti e fagotti; il KV 482, ventiduesimo del corpus, del 1785, richiede flauto, clarinetti, fagotti, corni, trombe e timpani; per finire, il KV 491, il ventiquattresimo, risalente al 1786, arriva ad includere flauti, oboi, fagotti, corni, trombe e timpani. Non è certo un caso che il più drammatico di questi quattro Concerti sia l'ultimo in ordine cronologico ed anche quello che richiede l'organico più ampio. Il discorso è analogo a quello delle Sinfonie, con la differenza che i Concerti per pianoforte, anche i primi, sono meno anonimi, dotati tutti di una loro personalità, dal primo all'ultimo.
Lonquich, come già per le Sinfonie, imprime un certo piglio austero anche ai Concerti, per fortuna non a tutte le pagine, almeno non a quelle più amabili. Il KV 453 inizia in modo molto ordinario, con delicatezze giustamente adattate alla portata emotiva del brano ed una cadenza non troppo espansa, che rispetta le proporzioni dell'architettura compositiva generale. Più convincente è l'Andante che segue, già venato di patetismo preromantico grazie anche all'atmosfera quasi notturnistica degli interventi solistici. Saltellante e reso con grazia infallibile l'Allegretto conclusivo, specialmente la coda, piena di brio, quasi da finale operistico. Nel secondo Concerto della serata di giovedì 22 maggio, il KV 482, è stato soprattutto l'Andante a colpirci: un brano insolitamente cupo, che, oltre alla tonalità di do minore, ha in comune col tempo lento del “Jeunehomme” la stessa visione disincantata e rassegnata, che Lonquich rende al massimo evitando di calcare sugli attacchi solistici e sfumando le conclusioni delle frasi melodiche. Adeguatamente evidenziata la verve del Rondò finale, la cui freschezza ed esuberanza, che assicurò a questa pagina fin da subito un'entusiastica accoglienza da parte del pubblico, secondo la testimonianza di Mozart in una lettera al padre, ben si collega alla tonalità scelta di mi bemolle maggiore, tonalità “eroica”, che in qualche modo sembra inadeguata quando utilizzata come tonalità d'impianto per il Concerto che ha aperto la serata di venerdì 23 maggio: il KV 449. Tornano nel primo movimento le sonorità cameristiche, sono in gioco sonorità più discrete e, nascosti tra le pieghe di una partitura piacevole, affiorano sottili e continui cambi di stati d'animo, giusto cenni quasi schubertiani, che Lonquich afferra e fa suoi nel dosare le dinamiche in modo (anche qui) preromantico, atteggiamento esteso anche alla cornice partecipe dell'orchestra. Nell' Andantino che segue cogliamo invece un senso di scorrevolezza, di apollineo, di purezza filtrata da una sensibilità direttoriale che non sembra rifarsi al Settecento, ma ad un'epoca posteriore, specie nelle sezioni in minore. Anche la decisione con cui viene attaccato il terzo movimento, Allegro ma non troppo , sembra rifarsi ad un periodo non mozartiano. Sonorità del pianoforte e sonorità degli archi ben bilanciate, per una resa fonica che lascia trasparire i giochi contrappuntistici suggeriti anche dal tema vagamente bachiano.
Per finire, sprofondiamo nell'abisso con l'unico concerto in do minore scritto da Mozart (il secondo ed ultimo, su ventisette, in tonalità minore, che fa il paio con il Ventesimo, KV 466): il KV 491. Scelta ponderata, quella del do minore, che in Mozart affiora in pochi casi e in corrispondenza di composizioni di forte impatto emotivo (l'Adagio e Fuga per quartetto d'archi KV 546 e la Piccola musica funebre massonica KV 477, tanto per fare due esempi). E d'impatto risultano senza dubbio il primo e il terzo movimento, che, a differenza del KV 466, non termina in maggiore, come un'ipotetica luce alla fine del tunnel, ma veementemente, facendo rotolare sul sepolcro di un'anima un masso che nega qualunque possibilità di resurrezione. La lettura di Lonquich è maschia, potente, quasi beethoveniana (a volte forse estranea alla poetica di Mozart, che mai rinuncia, pur nella tragicità, ad una certa nobiltà intrinseca); più dolce la romanza centrale, Larghetto, che comunque si colloca ad un notevole livello interpretativo.
Mozartiano anche il fuori programma della prima serata – un Minuetto – annunciato dallo stesso Lonquich a beneficio del pubblico; schubertiano invece quello della seconda: il primo dei Drei Klavierstücke D 946 in mi bemolle minore/maggiore, anch'esso annunciato e brevemente commentato prima dell'esecuzione: nove minuti circa di encore nel segno di una generosità musicale davvero lodevole.
Christian Speranza
21/8/2014
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