Lucia di Lammermoor
Lucia di Lammermoor
e la regia d'Argento
Quando un regista e sceneggiatore del cinema thrilling come Dario Argento viene ingaggiato per curare la regia di un'opera lirica, le aspettative risultano completamente legate alla ricaduta che le specifiche cinematografiche avranno sul palcoscenico. Se poi l'opera è Lucia di Lammermmor, con tinte ossianiche e gotiche proprie, l'incontro potrebbe risultare devastante o salvifico. Nel presente caso, salvifico. Dove il terrore e la follia insiti nel melodramma rappresentano un ottimo spunto, o principio, per far correre la fantasia di un cineasta «del brivido» quale è Argento. E certo gli effetti e i trucchi e le “macchine” e gli effetti speciali si sarebbero sprecati se l'intelligenza dell'artista Argento non avesse letto l'opera come l'opera va letta: cioè rispettando musica e libretto e scegliendo la naturale legge del teatro opposta alla panoplia di artifici messi a disposizione dalla esperienza cinematografica. La Lucia che ha posto in essere Dario Argento sul palcoscenico del Teatro Carlo Felice di Genova, e rappresentata in questo ultimo scorcio di febbraio, ha l'esperienza del regista consumato che ha messo a tacere il cineasta per amore del Teatro.
La lettura che ne risulta è asciutta, sobria, meditata. Certo qua e là affiorano disincanti e disimpegni particolari come i due nudi del primo atto e della prima parte del secondo atto e la visione “filmica” dell'uccisione di Arturo in “presa diretta” nell'ultimo atto (il tempo di tre fotogrammi?). Per tacere dell'omaggio al Teatro (e alle maestranze che vi lavorano) nell'aver voluto realizzare i movimenti del palcoscenico «a vista» tra la sesta e la settima scena dell'atto secondo (auspice lo scenografo Musenich).
La regia, inoltre, ha proposto una particolare lettura visiva e, di conseguenza, evidenziato alcuni aspetti icnografici (complice il costumista Gianluca Falaschi). Dai costumi dei personaggi maschili, ambientati negli anni Cinquanta dell'Ottocento, ai Preraffaelliti inglesi (nei costumi femminili e nel nudo) con citazioni dirette dalla «Beata Beatrix», «Venere verticordia»,«The Holy Grail» declinate da dipinti di Dante Gabriele Rossetti.
I due nudi, interpretati dalla statuaria Fabiola De Blasi, hanno avuto funzione di rievocare non tanto lo spettro paventato da Lucia già nel primo atto («l'ombra mostrarsi a me»: che richiama inequivocabilmente il nudo del «La sorgente» di Ingres), quanto la ragione della poveretta che già dal primo atto stava perdendosi. Così come lo spettro (di Lucia) che si avvicina ad Edgardo durante l'ultima scena non può non rimandare a Johann Heinrich Füssli.
Una scenografia schietta ed evocativa ha confezionato l'àmbito visivo di questo spettacolo. Rimane il dubbio se la scena della “Rupe del Lupo” (parte seconda, atto secondo) avesse potuto sortire maggiore effetto invece della incombente parete a cassettoni. Ma situazioni scenotecniche o sceniche a noi ignote ci consentono di farcene una ragione. Meritatissimi, per contro, gli applausi durante i movimenti a scena aperta di cui si è detto.
Tutto ciò narrato finora è il gradevole corollario attraverso il quale si sono dispiegate sia le note, sia il canto del capolavoro del romanticismo italiano per musica: la Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti coi versi del poeta collaboratore (e, da quest'opera in poi, amico) Salvatore Cammarano.
Intanto l'orchestra, diretta «con secura mano» dal maestro Giampaolo Bisanti, ha espresso dinamiche entusiasmanti e emozionanti. Arrivando a trasmettere momenti di commovente partecipazione, di elettrizzante tensione soprattutto nelle scene corali del «Contratto nuziale» (ovvero l'eccellente flauto di Francesco Loi, nella scena della pazzia) e ancora negli squarci orchestrali della quinta scena dell'atto secondo («Orrida è questa notte»). Il coro ognora partecipe della tensione (evocata pari passo dall'orchestra) sia nello scacciare l'intruso Edgardo («Esci. Va!»), sia nel partecipare allo sgomento di Raimondo quando annuncia l'uccisione di Arturo da parte di Lucia («Ah! Cessate quel contento»). Dove la voce del coro parte sottoterra con lo splendido attacco («Oh, qual funesto avvenimento») fino ad arrivare all'esplosione nella ripresa di Raimondo («e l'acciar, l'acciar stringeva») di notevole coinvolgimento emotivo.
I solisti, in stato di grazia, hanno rappresentato una Lucia per molti aspetti memorabile. A cominciare dall'Enrico di Mansoo Kim, dalla dizione perfetta e generoso nel canto, non risparmiandosi nel da capo per «La pietade in suo favore». Voce pastosa e dal bel timbro brunito.
La Lucia espressa la sera del 28 febbraio 2015 (alla quale ha assistito chi scrive), da Natalia Roman è sorprendente. La cifra espressiva scaturita dalla voce e della presenza scenica della cantante moldava ha qualcosa di insuperabile. Le dinamiche musicali, timbriche, agogiche hanno rilevato, aldilà della proprietà d'una tecnica eccellente, una fascinosa movenza da attrice consumata, coadiuvata e sostenuta (immaginiamo) dalla regia di Dario Argento. Nella scena della pazzia si è raggiunto il sublime nella totale accondiscendenza ed amalgama tra solista e orchestra; flauto e voce, voce e flauto. Movenze irrazionali, accenni di danza («Ardon gl'incensi»), paura («Trema ogni fibra»), terrore(«Sorge il tremendo fantasma / e ne separa»), allucinazione («Alfin son tua. Alfin sei mio») hanno dato vita ad una esecuzione con forti chiaroscuri dinamici. Suoni velati (sapientemente attenuati: «Ah quella voce») che ripropongono con grande forza i momenti di angoscia appassionata, alternati a momenti nei quali il timbro cristallino purissimo della Roman porta allo spasimo un' angoscia ormai degenerata nella pazzia. Esprimendo, con vigore, una tensione emotiva che non è mai venuta meno e, di conseguenza, coinvolgendo il pubblico che ha reagito con una ovazione intensa.
Quindi Edgardo, interpretato con fresco e aitante cipiglio (avec le physique du rôle) da Enea Scala dalla voce argentea, dal timbro chiaro e dagli armonici seducenti. Acuto luminoso e svettante. Dolce e misurato nel «Verranno a te sull'aure» (rivolto, con accanto la partner, verso il pubblico come a rendere omaggio al brano celeberrimo). Irruente e arginato a forza nel «Chi mi frena in tal momento?», ma soprattutto nel veemente ed intenso «Maledetto sia l'istante»; con il furente «Vi disperda!». Infine il disperato «Orrida è questa notte / come il destino mio». Nell'ultima scena, presso le tombe dei Ravenswood, il canto di Enea Scala ha toccato punte di pura elegia nel fatidico «Tu che Dio spiegasti l'ali» riconducendo l'espressione alla pura poesia.
Alisa, Normanno e Raimondo sono stati interpretati rispettivamente (correttamente e onestamente) da Marina Ogii, Enrico Cossutta e Giovanni Battista Parodi, quest'ultimo ha disimpegnato una parte con buona presenza scenica e una voce dal bel timbro sfumato più a suo agio nelle zone alte e centrali.
Alla fine lo spettacolo è stato lungamente applaudito con il maestro e il regista al proscenio. Le numerosissime poltrone vuote hanno segnato negativamente questo momento non facile per il Teatro Carlo Felice di Genova (per un'opera culto come Lucia, poi!) e segnatamente per il Teatro genovese tout-court (non essendo stato riconosciuto il Teatro Stabile di Genova degno di figurare tra i «Nazionali», vergogna e infamia dell'Italia intera!). Forse alcune recensioni di questa Lucia, incentrate sulla delusione per la regia “troppo ammansita” di Dario Argento, hanno influito non poco in tal senso. Perfino il sottoscritto era arrivato a teatro pieno di dubbi ed incertezze. Ma, alla fine, uscendo da teatro, ci si chiede quale Lucia di Lammermoor abbiano visto gli autori di codeste critiche. Questa del Carlo Felice, no di certo.
Francesco Cento
7/3/2015
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