La sposa cadavere
Metti che in una tranquilla domenica d'inverno, rischiarata da un provvido, primaverile tepore, il Teatro alla Scala schiuda le sue porte al pubblico per una recita di Lucia di Lammermoor; e che questo sia poco numeroso, addirittura a macchia di leopardo, e che dunque sia possibile ascoltare l'opera in un palco solitario, sotto lo sguardo compiaciuto e sornione di paffuti puttini che volteggiano leggiadri sul soffitto affrescato; e che ad un certo punto sia necessario sporgersi per seguire meglio lo spettacolo, e affondare le dita nel morbido velluto scarlatto, per meglio udire di crude, funeste smanie e d'eterne guerre, di sospiri ardenti e dell'eco di lamenti… Come sfuggire al fantasma di Emma Bovary? Come ignorare il fascino di quelle memorabili pagine flaubertiane, la descrizione di un altro pomeriggio domenicale, in cui l'eroina del romanzo, sporgendosi da un palco del teatro di Rouen, assiste dapprima trasognata, poi sempre più partecipe al dramma degli innamorati scozzesi, fino ad identificarsi nel loro triste destino? Lì la scena diventa specchio della sala, termometro sensibile alle oscillazioni di amori romantici, segreti palpiti ed eroici furori. E qui?
La nuova produzione scaligera è un prodotto attentamente impaginato per secondare i gusti del pubblico, per ripetere, senza eccessivi scossoni, un capolavoro consacrato dalla storia. Sul podio figura Pier Giorgio Morandi, per lunghi anni primo oboe della compagine orchestrale scaligera, da alcuni anni impegnato in una accorta carriera direttoriale. Sotto la sua imperturbabile guida, Lucia di Lammermoor scorre senza alcun intoppo, livida narrazione di una fiammata improvvisa, di una passione lacerante quanto devastante. Fine conoscitore delle convenzioni del melodramma italiano di primo Ottocento, Morandi nulla tralascia dell'avvincente partitura, che ascoltata nella sua interezza, senza i perniciosi tagli che ancor oggi vengono talora perpetrati, diventa vibrante affresco storico, fine descrizione psicologica di anime devastate dal dolore e dall'amore: la ricca tavolozza concertante dei timbri solisti (il flauto e l'arpa di Lucia, il violoncello di Edgardo) illumina di luci corrusche i risvolti più reconditi dei personaggi, sentimenti mal sopiti, pronti a deflagrare nel tragico epilogo. E in questo lo asseconda il coro, magistralmente diretto da Bruno Casoni, che non è semplice testimone dei fatti, alla maniera del teatro antico, ma ferale, brunita parte in causa di guerre fratricide.
È fresca e giovane la compagnia di canto, che annovera almeno un'eccellenza. Si tratta di Vittorio Grigòlo, che all'estero è già stato soprannominato “il Pavarottino” per lo slancio del suo canto. Più che al tenore modenese, tuttavia, fa pensare al Di Stefano degli anni migliori: una presenza scenica aitante ed incendiaria, un fraseggio limpido, solare, di strepitosa pregnanza fanno del suo Edgardo non già l'erede del pallido Lagardy di Emma Bovary, ma un eroe autenticamente romantico, piagato ma non piegato dal destino, cui si ribella con veemenza. Rimane, forse, da perfezionare il gusto delle sfumature, soprattutto quando il timbro si assottiglia eccessivamente. Ma certo non gli resiste Albina Shagimuratova, che di Lucia sta facendo – dalla Scala al Metropolitan di New York – il suo cavallo di battaglia. Pure, si tratta di una composizione perfetta ma non trascinante del ruolo, impreziosito da una tecnica sempre corretta ma mai trascendentale. È una Lucia impeccabile e professionale, capace di fiorire con accortezza, di filare i suoni, di consegnare una scena della pazzia opportunamente interiorizzata: ma raramente è dato comprendere che si tratta di mezzi per trasmettere un mal de vivre , cui sembra invece totalmente estranea. Per questo le è preferibile l'Enrico Ashton di Massimo Cavalletti: voce di grana grossa, incline ad accentuare l'aspetto vilain del personaggio, ma certo provvisto di una vivida compiutezza scenica, esaltata nella guerresca cabaletta a 2 della scena della torre. Nei ruoli di contorno si disimpegnano efficacemente Sergey Artomonov, Raimondo dalla bronzea, giovanile baldanza, Juan Francisco Gatell, confinato al ruolo di Arturo ma da tempo pronto per ben altre sfide, Massimiliano Chiarolla, idiomatico Normanno, e Barbara Di Castri, sensibile Alisa.
Forse sarebbe piaciuto ad Emma Bovary lo spettacolo firmato da Mary Zimmermann, proveniente dal Metropolitan di New York, dove è stato tenuto a battesimo nel 2007. Dire che si tratta di una produzione oleografica è, forse, troppo poco. Certo sono apprezzabili i rami secchi, che si stagliano sul bianco del rideau de scène e prefigurano paesaggi invernali ed austeri, squallide distese di ghiaccio che ritroviamo nelle scene – firmate da Daniel Ostling – dalle tinte seppia, quasi litografie à la manière di Gustave Doré. Bello è il grande salone dalla prospettiva sghemba, dove viene sottoscritto il contratto nuziale, come i raffinati, serici costumi di Mara Blumenfeld, tutti nei colori del ferro e del piombo. Meno convince la gigantesca luna piena, appena trafitta da qualche cirro, che campeggia onnipresente nell'ultimo atto – il cielo non dovrebbe essere «orrendamente nero»? – come alcuni guizzi registici, immaginati per creare una sorta di distanza ironica dal racconto dei fatti. Così, il grande sestetto del secondo atto, «Chi mi frena in tal momento?», si consuma mentre un fotografo accosta i personaggi, desideroso di immortalarli in un'improbabile foto di gruppo alla fine del concertato; o ancora un medico, sopraggiunto con tanto di puntura calmante, seda Lucia, un istante prima che questa attacchi la cabaletta finale, per giustificarne il crollo emotivo. Ma certo sarà difficile da dimenticare la presenza inquietante del fantasma dell'ava, la donna amata da un Ravenswood che Lucia evoca con raccapriccio presso la fontana della Sirena. «Dalla tomba uscita», questa si aggira per la brughiera scozzese per impressionare la mente già fragile di Lucia, fino a ricomparire nel finale per secondare il gesto suicida di Edgardo, che spirerà così tra le braccia della sposa cadavere.
Nessuno costringe a credere nel vecchio, antico melodramma. Ma ogni tanto è bene farlo.
Giuseppe Montemagno
27/2/2014
Le foto del servizio sono di Marco Brescia e Rudy Amisano - Teatro alla Scala.
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