Lucia di Lammermoor
inaugura la stagione 2014-2015 del Teatro Filarmonico di Verona
La sera di Santa Lucia, come da tradizione negli ultimi anni, è stata inaugurata la Stagione d'Opera e Balletto della Fondazione Arena al Teatro Filarmonico con Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti. L'opera fu creata per il Teatro di San Carlo di Napoli nel 1835 con grandissimo successo, immediatamente divenne una delle opere più gradite al pubblico, cavallo di battaglia d'innumerevoli cantanti e fu considerata il capolavoro assoluto del compositore bergamasco. Con la renaissance donizettiana, operata nel secolo scorso, oggi possiamo affermare che molti altri lavori si collocano sullo stesso piano ma è indiscusso che Lucia resti la più popolare e conosciuta. Il melodramma, con libretto di Salvatore Cammarano, ha come caratteristica espressiva, forse ancor prima della musica, di essere una specie di antologia di tutti i tratti identificativi del romanticismo, che fu quella corrente artistica che dalla fine del ‘700 dominava nelle arti e attirava l'attenzione, seppur con qualche polemica, dei pubblici più e meno colti di tutta Europa. Anche l'opera lirica fece propri questi temi, gli scenari che caratterizzavano le opere scritte da autori romantici. Walter Scott fu il padre del romanzo storico, e a lui attinsero molti compositori per i soggetti da musicare. I temi del romanticismo furono soprattutto Amore e Morte, vissuti in maniera ideale e quasi mistica. Infatti, troviamo vicende impossibili di amanti infelici, contrastati dalla sorte e dalla situazione storica, destinati a trovare la felicità solo in cielo.
In Lucia tali peculiarità acquistano una dimensione simbolica raramente raggiunta, cui contribuì in particolare la musica. La giovane ragazza debole ed angelica, il germano cattivo e indirizzato solo a salvare la posizione politica della famiglia, l'innamorato diseredato ma ricco d'onore, la maledizione, cui si aggiungono effetti teatrali di spicco: le rovine, la luna, le tombe, la pazzia e una felicità, appunto, forse solo ultraterrena. Dal punto di vista drammaturgico la Lucia donizettiana offre anche situazioni musicali innovative. In primis, conferma lo stile classico delle arie di sortita, ma poi ad esempio la protagonista regge un grande arioso del basso, diviso in due sezioni, come semplice pertichino. L'elemento di maggior novità è tuttavia rappresentato dal finale, il quale è affidato al tenore e non all'eroina protagonista del ruolo, aspetto che avrà fatto schiattare d'invidia molte primedonne ottocentesche e non solo.
Lo spettacolo allestito a Verona proveniva da Catania dove fu creato lo scorso anno e portava le firme di Guglielmo Ferro alla regia, Stefano Pace per le scene, Françoise Raybaud per i costumi e Bruno Ciulli alle luci. Non è spettacolo che emoziona particolarmente, si può guardare senza dover cercare intuizioni e soluzioni di complicata drammaturgia. La scena è quasi fissa, delimitata con pochissimi elementi d'arredo su cui troneggia una proiezione obliqua di filmati. Non sarebbe neppure il caso di chiamarla scena, i filmati sono anche belli ma sempre ripetitivi e lo spazio creativo, immenso, è lasciato al caso e all'insignificante banalità. Ferro ha espresso, in conferenza stampa, di voler creare un ambiente scozzese cupo, selvaggio e violento. Sta bene, ma allora perché lasciarsi sfuggire di mano le entrate dei protagonisti che se diverse, avrebbero reso la vicenda più intrigante e meno monotona. Un esempio è costituito dalla celebre scena della pazzia, ove la povera Lucia era ferma al centro del palcoscenico e non trovava gesto e movenze tipiche del personaggio, sviluppata in maniera estremamente funerea, come lo sposalizio in costume nero! A questa situazione non contribuiscono neppure la sommaria partecipazione del coro e delle parti minori tali da rendere atmosfere e situazioni diverse, seppur drammatiche. Non è sembrato che in questo contesto siano stati identificati scenicamente i personaggi, tanto meno il coro disposto semplicemente frontale come dovesse fare la foto di fine anno scolastico, lasciati sovente al caso o all'intuito personale, il quale non può sopperire a situazioni drammatiche rilevanti nel corso dell'opera. I costumi della Raybaud erano perfettamente pertinenti con lo spettacolo, senza lasciare traccia. Le videoproiezioni seppur belle spesso distraevano nella continua sezione di nuvole moventi.
Sul piano musicale abbiamo ritrovato il direttore Fabrizio Maria Carminati, che di questi tempi e in tale repertorio è una garanzia certa. Egli fortunatamente esegue la versione integrale dell'opera, seppur con sporadici e limitati tagli, che concerta con accorata energia e lucentezza drammatica. Da buon conoscitore dello spartito realizza un equilibrio pregevole tra orchestra e palcoscenico, sapendo anche asservire con valida professionalità i singoli interpreti. L'orchestra dell'Arena di Verona ha seguito il suo gesto con ammirevole precisione, un po' meno il coro, istruito da Salvo Sgrò, ma pur sempre corretto.
Il soprano Irina Lungu debuttava il ruolo proprio in quest'inaugurazione. Le attese non sono andate deluse. La cantante è obbligata ad un'interpretazione più lirica che acrobatica, ma questo non va a discapito di soluzioni di ripiego, anzi, l'incisività del recitativo e la puntualità nei momenti virtuosi ne sono la conferma. Volendo essere precisi qualche acuto c'è sembrato quasi al limite, e il personaggio non era del tutto scolpito, complice anche una regia assente, ma è ipotizzabile che in futuro e con maggior rodaggio si potranno avere risultati ancor più apprezzabili.
Altrettanto valida la prova del tenore Piero Pretti, che avevo ascoltato in un Rigoletto qualche anno fa non troppo entusiasmante. Nell'Edgardo veronese invece ho trovato un cantante raffinato, sempre puntale e preciso, dotato di strumento affascinante ed un innato senso del canto. Leggermente inferiore l'Enrico di Marco Di Felice, non tanto per qualità canore, piuttosto per una personale identificazione truce e greve del personaggio che ha compromesso pagine di elevato belcantismo. Corretto il Raimondo di Insung Sim, ma senza le necessarie qualità vocali che il ruolo richiederebbe, stentoreo Alessandro Scotto di Luzio nella breve ma difficile aria del II atto. Nelle due parti di fianco ben si distinguevano Elisa Balbo, Alisa, e Francesco Pitteri, Normanno.
Buon successo al termine, ma anche in tale occasione dobbiamo registrare numerose assenze di pubblico anche con un titolo cosi conosciuto.
Lukas Franceschini 22/12/2014
Le foto del servizio sono di Ennevi.
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