Rarefazione o impoverimento?
Nuovo completamento e nuova versione cameristica a Bolzano per la Lulu di Berg
Terza grande “Incompiuta” del Novecento con Turandot e Moses und Aron, la Lulu restò nella propria incontaminata non finitezza finché rimase in vita la vedova di Berg: una di quelle vestali – con il suo pervicace divieto di diffondere gli abbozzi, in realtà tutt'altro che laconici, dell'ultimo atto – votate più al culto del Caro Estinto che agli interessi della Musica. Il completamento poté arrivare solo dopo: e a Friedrich Cerha, quanto a consenso e gratitudine, arrise un destino migliore di Franco Alfano, troppo ingiustamente maltrattato per la sua ricostruzione turandottesca.
Insomma, se i recenti nuovi finali dell'ultima opera di Puccini potevano trarre motivazione nel diffuso scontento verso il lavoro alfaniano, di un nuovo terzo atto di Lulu non si sentiva il bisogno. Né il “nuovo” si limita al “mancante”: Eberhard Kloke, in occasione di questa première italiana a Bolzano, affianca al suo neocompletamento una vera e propria riscrittura, asciugando (o impoverendo, secondo i punti di vista) i primi due atti – quelli totalmente berghiani – attraverso un'orchestrazione paracameristica. Ne sortisce una nuova cornice strumentale che dona qualcosa in termini di rarefazione, rende più intelligibile la proiezione del testo e avvantaggia un cast di tenuta vocale mediamente fragile; ma che, al contempo, molto sottrae in termini timbrici e drammatici. E l'idea di registrare i passaggi recitati insuffla, poi, un ulteriore senso di estraniamento.
Anthony Negus e David Pountney – l'uno sul podio, l'altro in cabina di regia – sposano comunque con apparente convinzione il rinnovato contesto. Il primo punta essenzialmente sulla ritmica (la timbrica risultando inevitabilmente impallidita dallo snellimento orchestrale) e sull'analiticità della struttura: i rapporti tra singolo personaggio e forma musicale – il rondò per Alwa, la forma-sonata per Schön – vengono restituiti con puntigliosa precisione e programmatica schematicità. Sotto questo doppio profilo il direttore è ben assecondato sia dall'Orchestra Haydn (la cui Fondazione è responsabile dell'intera stagione operistica altoatesina) sia dalla diligenza degli interpreti, purtroppo diseguali per valore.
Se la Contessa Geschwitz di Natascha Petrinsky coniuga schietta caratura drammatica e ottima tenuta vocale, dando vita a un personaggio di potente femminilità pure nei momenti di più violento strazio saffico, e Steven Scheshareg veste i panni dell'Atleta con ironia, ma anche con l'intermediazione di un organo vocale assai robusto, gli altri restano al di sotto dei rispettivi desiderata. Marie Arnet è una protagonista plausibile scenicamente e disinvolta nelle nudità, mentre sul piano vocale appare una Lulu quasi senza volto: tanto diligente quanto incompiuta sul fronte del soprano leggero come su quello del soprano lirico. Johnny van Hal non è tenore da dominare tutte le asperità della scrittura di Alwa. Paul Carey Jones dà il meglio di sé nell'apparizione di Jack lo Squartatore, mentre è un Dottor Schön non più che corretto. Bernd Hofmann, dopo aver messo a repentaglio la propria intonazione come Domatore nel prologo, è uno Schigolch di buone intenzioni, ma acerbo.
Pountney, firma un allestimento realizzato per la Welsh National Opera, palcoscenico per il quale ha firmato spettacoli memorabili: ma qui i risultati non eguagliano quelli dei suoi Janácek e dei suoi Martinu. Soprattutto, si direbbe che il restringimento “cameristico” della partitura, con la perdita di ogni densità post-romantica, abbia suggerito al regista un minimalismo pure sul piano drammaturgico. Più che Berg, ne fa le spese Wedekind: se Lulu, nelle intenzioni dello scrittore, non è la solita mantide massacramaschi (figura in fondo borghesuccia e cara alla letteratura italiana fin de siècle ), ma una demistificazione del positivismo tardo ottocentesco (l'ingestibilità del femminino come forza irrazionale in luogo dell'ormai esaurito romanticismo), sta di fatto che di tale retroterra storicistico in Pountney non c'è traccia. La superficie sembra prevalere sul sottotesto e non a caso, in questa messinscena, l'ambientazione circense del prologo si estende all'intera vicenda. Tutto, certo, è calcolato al millimetro: ma si direbbe che il transito dal kitsch al trash – vengono in mente pure certi esiti dell'ultimo Graham Vick – sia oggi un grimaldello estetico un po' abusato dalle regie operistiche cosiddette d'autore.
Paolo Patrizi
18/1/2016
Le foto del servizio sono di Benedetta Pitscheider.
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