Ai Maestri cantori scaligeri è mancato il tenore
Lo scheletro sbreccato di una chiesa, costellato di impalcature foriere di imminenti restauri, domina la messa in scena dei Maestri cantori di Norimberga vista al Teatro alla Scala, dal quale mancava da ben ventisette anni. La produzione proviene dalla Opernhaus di Zurigo, dove è andata in scena nel 2012. Harry Kupfer, decano dei registi tedeschi, situa l'azione più o meno negli anni cinquanta, a giudicare dai costumi di Yan Tax, quando la Germania sta risorgendo dalle ceneri del secondo conflitto mondiale.
La trasposizione epocale non è mero esercizio di stile, ma innerva la sostanza drammaturgica di un testo nel quale “il contrasto fra l'antico e il nuovo è uno dei motori dell'azione”, per usare le parole del grande musicologo Carl Dahlhaus. In quest'ottica la storia “non è inerte frammento di un passato morto e sepolto, sibbene preistoria del presente”. Se Wagner guardava all'epoca aurea del Cinquecento come archetipo del proprio tempo, Kupfer torna agli anni difficili del dopoguerra, sui quali è nata la Germania di oggi. La Norimberga di Wagner è una città modello, ancora inconscia della sua futura distruzione ad opera dei bombardamenti alleati e della sua identificazione con il luogo dove si svolse il processo contro i criminali nazisti. Kupfer parte invece dal dopo, dalle rovine che dominano la scena, dal lento processo di ricostruzione. La sua Norimberga appare come una realtà devastata che attende di risorgere dalle proprie ceneri. Detto ciò, occorre sgombrare il campo da eventuali equivoci. Non siamo assolutamente di fronte a un allestimento cupo e oscuro, che snatura i caratteri della commedia. Il meccanismo teatrale scorre alla perfezione, tanto nei momenti intimi quanto nei grandi movimenti di massa. Magistrale ad esempio la baruffa che conclude il secondo atto, così come la festa di San Giovanni del terzo, con un tripudio di pupazzi, maschere e saltimbanchi a popolare la scena. Nulla viene lasciato al caso, tutto è calibrato con sapiente mestiere. L'attento lavoro registico, ripreso per l'occasione da Derek Gimpel, scava all'interno dei caratteri, donando sostanza umana ai personaggi. Si pensi alla maniera nella quale viene suggerita l'attrazione vagamente erotica fra Sachs ed Eva, al modo in cui questi acquistano progressiva consapevolezza dell'impossibilità di un qualsiasi rapporto d'amore fra loro. Grazie alla continua rotazione del palcoscenico e ai conseguenti mutamenti di prospettiva, la scena unica costruita da Hans Schavernoch evita qualsiasi impressione di monotonia.
Daniele Gatti scrive forse la pagina più alta nel suo approccio al repertorio wagneriano. Una grande sensibilità lirica sostiene la sua lettura. Splendido il modo in cui tratteggia le tenere effusioni degli amanti, il sorgere della loro nascente passione. Ammirevole poi la maniera in cui accompagna il personaggio di Sachs, dalle sue esternazioni impetuose e rudi ai momenti più propriamente introspettivi, soffusi di una profonda pensosità. Nelle sue mani il quintetto, momento lirico per eccellenza, si sublima in pura elegia. Gatti evita poi qualsiasi effetto caricaturale nella definizione di Beckmesser, così come rende l'autorevolezza dei Maestri senza cadere nella magniloquenza. L'Orchestra, sempre all'altezza in tutte le sue sezioni, sfoggia un suono caldo e pastoso. Ottima anche la prova del coro, ben preparato da Bruno Casoni.
Riguardo il cast, Michael Volle rende con dovizia di accenti le mille inflessioni che il personaggio richiede, grazie a una voce duttile e a ottime doti di fraseggiatore. Il peso specifico non enorme lo avvicina più a un Fischer-Dieskau che a un Paul Schöffler, senza per questo voler introdurre paragoni inopportuni. Arriva appena un poco stanco al monologo conclusivo, ma la sua prestazione è comunque da ricordare. Albert Dohmen riveste il personaggio di Pogner di una calda affettuosità. La voce è solida, solo un poco usurata dal trascorrere del tempo. Marcus Werba canta con morbidezza il ruolo di Beckmesser, evitando qualsiasi scivolone nel caricaturale; apprezzabile poi il Fritz Kothner di Detlef Roth. Piuttosto ben cantato il David di Peter Sonn, aggraziato e limpido come si conviene, anche se un poco aperto negli acuti. Jacquelyn Wagner è un'Eva verginale e convincente dal punto di vista interpretativo, ben affiancata dalla Magdalene di Anna Lapkovskaja. Valido il nutrito stuolo dei Maestri. Ottimo infine il guardiano notturno di Wilhelm Schwinghammer. Unica, ma grave, pecca della serata è nel personaggio di Walther von Stolzing. Erin Caves, chiamato all'ultimo istante a sostituire un Michael Schade già affaticato in occasione della prima, è assolutamente inadeguato al ruolo. Peccato, perché la sua prova incolore sciupa uno spettacolo pregevole, al quale è mancata una personalità tenorile forte per raggiungere vette di eccellenza.
Riccardo Cenci
22/3/2017
Le foto del servizio sono di Brescia&Amisano-Teatro alla Scala di Milano.
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