Il Macbeth originale
Il Maggio Musicale Fiorentino ha scelto di celebrare il bicentenario verdiano nella maniera più appropriata: e cioè riproponendo Macbeth, nella versione originale fiorentina del 1847, nello stesso Teatro della Pergola in cui aveva visto la luce. Decisione azzeccata sia per il luogo sia per le scelte musicali, in quanto si tratta di una celebrazione di Verdi che contribuisce alla conoscenza del musicista molto più dell'ennesima Traviata. Il Macbeth 1847 (che si è finalmente ascoltato nella sua purezza, senza inopportune mescolanze con l'edizione parigina del 1865) è un'opera differente rispetto alla versione successiva. Ciò non si nota tanto nei primi due atti, nei quali, trascurando le varianti minori (per lo più attinenti l'orchestrazione), Verdi cambiò in maniera sostanziale solo l'aria della Lady del II atto; ma diviene evidente nel terzo e nel quarto, dove l'eroe eponimo esce dall'ombra della propria consorte per diventare protagonista a tutti gli effetti: è, infatti, insieme al coro delle streghe, unico personaggio del III atto, nel quale gli spetta una lunga scena con aria e cabaletta; e tiene campo in tutto il finale ultimo, con «Pietà, rispetto, amore» e il successivo arioso conclusivo «Mal per me che m'affidai». A metà della partitura vi è quindi uno spostamento del baricentro drammaturgico dalla figura della Lady – motore dell'azione nei primi due atti, ma negli ultimi due destinata a comparire solo per la scena del sonnambulismo – a quella del marito, che, dopo essere stato ben plasmato, è ormai sufficientemente malvagio da agire di propria iniziativa. Nella versione 1865 la Lady, con la sua comparsa nel duetto del finale III che sostituisce la cabaletta «Vada in fiamme, e in polve cada» del protagonista, rimane invece figura drammaturgicamente centrale.
La coppia demoniaca a Firenze è stata ben incarnata dal baritono Luca Salsi e dal soprano Tatiana Serjan. Il primo, dotato di strumento giovane e vigoroso, nella prima scena ha rischiato di gridare nella voce piena, ma ha mostrato nella mezza voce quelle sfumature fatte di accenti sapienti, di trattenute, di sforzati, che hanno caratterizzato tutta la sua interpretazione. Ne esce un Macbeth sbalzato a tutto tondo, dalle esitazioni tormentate del I atto alla rabbia che lo assale nel II atto quando impreca «Cielo!» dopo aver saputo che il figlio di Banco è sfuggito all'agguato; dalla spinta gagliarda nell'efficacissima cabaletta che conclude il III atto (soppressa nel 1865), nella quale Salsi ha evitato puntature ma ha dominato alla perfezione l'orchestrazione con ottoni nelle frasi finali, facendo emergere il carattere egocentrico e volontaristico del protagonista, alla disperazione finale, talmente assoluta da non lasciare spazio nemmeno alla parola, al punto da risolversi in un lacerato sussurro nell'ultimo arioso. Il soprano ha caratterizzato il ruolo della Lady con un timbro acido adatto alla perfidia della donna, anche se a rischio, qua e là, di cadere nella monocromia. Particolarmente riuscita è stata l'aria del I atto, con la cabaletta «Or tutti sorgete» scolpita parola per parola e colta nelle sue sfumature più terribili; il merito, oltre che alla solista, è da ascriversi al direttore James Conlon, che ha scelto tempi lenti per tutta la partitura, ed in specie per questa cabaletta, permettendo al soprano di cesellarla in tutti i suoi dettagli. Magistrale è stata anche l'interpretazione del brindisi del II atto, in particolare nella seconda strofa, evidentemente nervosa, tesa, forzata. Non altrettanto si può dire della cabaletta «Trionfai! securi alfine» (in luogo della quale, nell'edizione del 1865, fu inserita l'aria «La luce langue»), pezzo brillante di coloratura che mal si adatta allo strumento della Serjan; è probabilmente in virtù di questa poca congenialità che non ne è stato eseguito il da capo, unica eccezione all'integralità della partitura.
L'inizio del IV atto, dopo aver rivelato la prima versione del coro «Patria oppressa» – nel quale Verdi volle rifare per l'ennesima volta i cori di Nabucco e Lombardi ma senza ottenerne l'effetto dirompente, sicché risulta più interessante, al confronto, la raffinata versione del
1865 –, ha rivelato due voci tenorili da tener d'occhio: Saimir Pirgu, nel ruolo di Macduff, ha una bella voce espressa a fior di labbra capace di squillo e sfumature, che non perde nitore e morbidezza nel forte; Antonio Corianò è eccellente per un ruolo tutto sommato secondario come quello di Malcom, nel quale si mette in luce per lo squillo incisivo e lucente. Nei primi atti si è potuto apprezzare il Banco del basso Marco Spotti, a proprio agio più nel registro grave che in quello acuto.
La direzione attenta di Conlon e l'Orchestra del Maggio (in forma lievemente meno smagliante è parso il coro, specie nella componente femminile; il corpo di ballo non figurava, data l'assenza del balletto nel Macbeth del 1847) hanno fornito allo spettacolo quel collante che ha permesso di apprezzare appieno la partitura verdiana nella sua forma originaria, qua e là meno raffinata della versione successiva, ma, oserei dire, più efficace e incisiva, in particolare per ciò che concerne il lapidario finale affidato alla disperazione del protagonista. Il collante è invece un po' mancato nella regia di Graham Vick: l'ambientazione ai giorni nostri non era priva di una sua coerenza e plausibilità, dato che gli istinti primordiali incarnati dai protagonisti e l'esplicarsi della sete di potere nei misfatti hanno una loro eterna attualità. Tuttavia, togliere alle streghe ogni elemento sovrannaturale per farle apparire come una via di mezzo tra prostitute di periferia e proiezioni dell'inconscio di Macbeth è una soluzione che non convince; e parimenti non convincono alcuni elementi grotteschi dell'atto finale, come i ribelli che strappano i sedili di plastica verde dell' “autostazione Birna” in cui hanno cantato «Patria oppressa», o la triviale lotta a mani nude tra il protagonista e Macduff nella scena finale.
Marco Leo
17/7/2013
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