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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

«Meditazioni»

La Seconda di Mahler al Regio di Torino

Per la stagione concertistica 2024/25, il Teatro Regio di Torino ha deciso di personalizzare ogni appuntamento con un titolo programmatico. Nel caso del concerto di venerdì 14 marzo 2025 si è optato per «Meditazioni». E quando in sala torna, dopo un'assenza di più di dieci anni, un caposaldo del Tardoromanticismo come la Seconda Sinfonia di Gustav Mahler, da meditare c'è parecchio.

Il primo movimento, Totenfeier, variamente traducibile come “rito funebre”, “glorificazione della morte” e simili, è una meditazione sulla morte di cui la giovinezza – e purtroppo anche la maturità – di Mahler fu costellata: solo nel periodo di gestazione di questa Sinfonia, il compositore vide perire il padre, la madre e la sorella Leopoldine tutti nel 1889; e qualche anno dopo, nel 1895, il fratello minore Otto, instradato anch'egli sulla via della composizione, si sparò alla testa; ma già prima di questi, i lutti di altri sette fratelli gli avevano aduggiato l'adolescenza.

Sentimentalmente le cose non andavano meglio: proprio nell'anno di composizione del Totenfeier, il 1888, nasceva e moriva la relazione con Marion von Weber-Schwabe, parente di quel Carl Maria di cui Mahler ricostruì Die Drei Pintos, che debuttò a Lipsia proprio nell'88. Il Totenfeier si colloca così come punto di partenza su cui riflettere sui fallimenti, sulle disfatte: «Perché hai vissuto? Perché hai sofferto?», sono le domande che pone questo movimento, e che Mahler riporta nel programma di sala della Sinfonia. Anni dopo sopprimerà qualsiasi indicazione programmatica dei suoi lavori, ma per ora no, per ora vuole che ci sia una guida per il suo pubblico. Di qui a farne il primo movimento della futura Seconda, passeranno anni. Nel 1893 nasceranno secondo, terzo e quarto movimento, il terzo rielaborando un Wunderhornlied (eliminando la voce), il quarto orchestrandone direttamente uno, Urlicht, completo di voce. E di qui si fa strada l'idea di una nuova Nona di Beethoven, una sinfonia con voci, con un finale corale possente e il più possibile universale. Ma per quale testo optare? La scelta ricadrà, come noto, su Die Auferstehung di Klopstock, cantata al funerale di Hans von Bülow nel 1894: quel von Bülow che aveva aspramente criticato il Totenfeier e che ora, con la sua morte, viene a ispirare Mahler. Per aspera ad astra, ecco il percorso della Seconda terminare con la resurrezione dell'ultimo giorno. Non per forza la Resurrezione con la R maiuscola – si sanno le ambigue posizioni di Mahler in fatto di religione –, ma una rinascita, un più vago, indistinto sogno palingenetico che fornisce le risposte alle domande poste dal Totenfeier.

Meditazioni, dunque. E meditazioni siano. Quando poi siano convogliate alle orecchie dall'Orchestra e dal Coro del Regio, si perviene ad un risultato artistico che esalta ancor più il lato diegetico della sinfonia. Se infatti tecnicamente l'esecuzione si attesta su un alto grado di perfezione – qualche lieve incrinatura, qualche impercettibile diacronia negli attacchi degli ottoni scoperti in quarto e quinto movimento non inficiano certo l'ora e venti abbondante di musica –, è nella resa del disegno d'insieme che va cercata la sua nota di merito precipua, il quid che la differenzia da altre Seconde ascoltate in passato, sia dal vivo, sia in registrazione. Messa da parte infatti la partitura, la cui lettura evidenzia sì il dato compositivo, talvolta interpretativo, ma spesso sbalestra la visione complessiva, l'ascolto è fluito compatto, unitario, senza suscitare l'impressione sovente deleteria di una composizione che a un primo ascolto suona frammentaria, che quasi goda a perdersi nei rivoli di sviluppi secondari apparentemente fini a se stessi, come gli sviluppi accidentali di Bergson. Ma di Bergson sarebbe meglio qui citare la differenza tra tempo interiore e tempo esteriore. Diciamocelo: un po' a volte succede. Che Mahler sappia di prolisso, dico. Ma se non si percepisce, anzi, se si riesce a cogliere lo schema globale di una composizione così vasta, il merito va ascritto a un direttore come Aziz Shokhakimov, che sa tenere salde le redini del centinaio di orchestrali davanti a lui e che riesce a tendere efficacemente un arco lungo tutta la durata della sinfonia, lungo gli svariati saliscendi emotivi. Se ne ottiene così una lettura personale e straordinariamente compatta. A ciò contribuiscono metronomi staccati su tempi di poco più veloci della media, senza che ciò tuttavia faccia decadere l'esecuzione nella corrività: la cura del dettaglio strumentale si coglie anche così. Certo, al termine del Totenfeier la pausa non è di «almeno cinque minuti» come vorrebbe Mahler, ma quel tanto che basta ad accordare nuovamente gli strumenti. Ma poco importa. La lettura così sostenuta e in qualche modo alleggerita da buona parte della retorica che si porta dietro rendono una pausa così lunga superflua. L'Andante moderato, si distingue per l'attenzione alle dinamiche e ai colori, dosati e garbati, con efficaci ritenuti nelle sezioni che precedono il refrain di questa sorta di rondò allargato, per il canto rilevato dei violoncelli, caldo e umano, per l'ottimo pizzicato, che già guarda alla sezione cameristica dello Scherzo della Quinta, e per la cantabilità aerea, direi quasi pneumatica degli archi. D'altro canto questo è il movimento dove maggiore è il loro impiego, come il terzo, con funzione di Scherzo, è quello dei fiati, dei legni in particolare: e allora, ecco che all'intrecciarsi di un disegno ondeggiante, ancora una volta appannaggio degli archi e che qui prelude allo Schattenhaft della Settima, ecco balzare in primo piano la sonorità resa davvero liquida di clarinetti e flauti – liquida come l'acqua cui allude il Lied da cui è tratto, Des Antonius von Padua Fischpredigt. Buona anche la separazione dei piani orchestrali e i dialoghi tra fiati, spazializzati a mo' di botta e risposta.

Complici le grandi dimensioni della sala del Mollino, gli scoppi orchestrali, i tutti, di cui la poetica mahleriana si serve come risorsa necessaria e non suppletiva di lacune ispirative, suonano grandiosi ma non pletorici, non eccessivi, improntando il tutto a grandiosità severa e misurata – questo soprattutto per primo e ultimo movimento. Forse in ciò il lato emozionale soffre un po', soprattutto nel sublime Urlicht, sessantotto battute appena strumentate in modo magistrale, presaghe già di quell'atmosfera notturna e misteriosa che animerà il quarto della Terza, su testo di Nietzsche: l'espressività del movimento, e anche di Okka von der Damerau, mezzosoprano chiamata a interpretarlo, viene in parte sacrificata sull'ara di questa unitarietà di visione, non lasciando molto margine di manovra per quegli illanguidimenti, per quei dilavati abbandoni utili a penetrare il testo della “rosellina”. Vocalmente valida, di buon timbro caldo e dallo strumento voluminoso, von der Damerau convince dal lato tecnico ma, per l'appunto, meno da quello emotivo, in parte per l'impostazione della direzione, che lascia emergere purtroppo, a fronte di un canto corretto, poca sacralità, poco soffio etereo.

Ci pensa il Coro del Regio, al termine del complessissimo Finale, a smuovere anche gli animi più insensibili, insorgendo da un quasi inudibile ppp, di difficile intonazione soprattutto perché a cappella e a sei parti (!), fino a esplodere nell'abbacinante fff su quell'«Aufersteh'n» che non può non commuovere. L'impassibilità richiesta ad un giudizio il più possibile oggettivo vacilla di fronte alla resa espressiva di questo Coro, che, grazie allo zelo di Ulisse Trabacchin, conduce la Resurrezione di Mahler a un indiscusso trionfo di pubblico e critica.

Christian Speranza

23/3/2025