Milano
Memorabile Mahler
Nella serie ‘concerti straordinari' si presentava alla Scala, in una pomeridiana di domenica, la Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks guidata dal suo direttore, Mariss Jansons. In programa, la lunga – solo in termini di tempo reale – nona sinfonia di Mahler. Ci sono delle sinfonie – o altro – ‘lunghe' che risultano brevi, così come succede il contrario; risultano perfino più brevi di altre ancora più lunghe... Questa in particolare si prende il suo tempo ma, come succede quasi sempre con Mahler, “nell'orecchio della gente s'introduce destramente” e, non lo direbbe certo Don Basilio, anche nell'anima, spirito o come diavolo si chiami quell'altra parte. Insomma, quando dopo quasi novanta minuti il concerto finiva, sembrava che fossero passati dieci minuti o piuttosto che il tempo fosse stato sospeso, abolito. La concentrazione del pubblico, e come dappertutto, anche a Milano, i presenti lo erano davvero, più tranquilli e meno disposti a 'distrarsi' di quelli – spesso solo presenti nell'aspetto fisico – che frequentano gli spettacoli operistici, era quasi uguale a quella che lasciavano trasparire la compagine orchestrale e il Maestro (scritto con la maiuscola, per cortesia). Un insieme di musici che ci lasciavano la pelle quasi senza farlo vedere; anzi, si vedevano visi illuminati dal sorriso o da una serietà che non era mera 'routine'. Non si è trattato solo di un'esecuzione tecnicamente più che inappuntabile; era semplicemente stupenda, piena di 'senso e sensibilità'. Non importa troppo se ci troviamo davanti a una sinfonia 'programmatica': fondamentale in questo capolavoro non é quanto ha di nuovo, di 'seme di futuro' o 'ricapitolazione del passato' ma quello che 'racconta', dall'ampio primo movimento, passando per il più 'popolare' secondo e il 'burlesco' ed esuberante terzo, fino arrivare a quel momento unico che è l'adagio finale, 'tipico' di casa Mahler, dopo il quale non solo Jansons e l'orchestra restavano un lungo attimo immobili, ma anche la sala – piena – aggiungeva qualche secondo di profondo ed impressionante silenzio. Più delle ovazioni vere e proprie rivolte a direttore e orchestrali (compresi evidentemente i vari solisti, tutti di una bravura eccezionale) è stato quel silenzio il giudizio più vero.
Si è vissuto un momento memorabile, lontano da orpelli e superficialità inutili. La bacchetta di Jansons è chiara, precisa, flessibile, benché talvolta sembri sparire nel passare da una mano all'altra o rimanere raccolta mentre mani e dita indicano e fraseggiano: ha poi un gesto, direi piuttosto un fare, più ampio ancora nel quarto movimento, che coinvolge tutti e ciascuno, e perfino – quando richiesto – i diversi settori: il grande momento del violoncello in questo ultimo movimento, i vari dei fiati, arpe e bronzi, e il permanente appoggio e flusso degli archi era sempre omogeneo e superiore, tranne nei momenti destinati a esibire la bravura dei solisti, che per forza di cose eccellevano. Alcuni membri del pubblico avevano energie da sprecare inútilmente facendo confronti tra questa e quella versione sentita dal vivo o in disco, dei distinguo fra maestri e orchestre, e ce n'era sempre qualcuna più valida, più pregevole. Ma questa versione, considerata in se stessa, non so – e non importa – se fosse di riferimento o meno. Per la sua profondità davvero oceanica, la sua adesione al verbo mahleriano, era, semplicemente, meravigliosa .
Jorge Binaghi
12/2/2017
La foto del servizio è di Brescia e Amisano-Teatro alla Scala.
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