Una Quinta da manuale
È ancora fresco il ricordo in chi scrive della stupenda Sesta Sinfonia di Mahler diretta la stagione scorsa da Robert Trevino, che già è ora per lui di sorprendere nuovamente con la sua bravura, sempre a Torino, presso l'auditorium Arturo Toscanini, e sempre con l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN). E sempre con Mahler. Con la Quinta, stavolta. Il concerto di giovedì 2 novembre 2023, qui in esame, replicato venerdì 3, si inserisce non solo come secondo appuntamento della nuova stagione dell'OSN, ma anche nell'ambito del Festival Mahler di Milano, indetto per festeggiare i trent'anni di attività dell'Orchestra Sinfonica e i venticinque del Coro Sinfonico di Milano. Trevino e OSN andranno infatti in trasferta per replicare il programma in terra meneghina sabato 4. Programma che, oltre alla Quinta, prevede, come breve entrée, The Unanswered Question di Charles Ives.
L'accostamento dei due brani sembra casuale, ma possono essere ravvisati sottili legami sia tra gli autori, grosso modo contemporanei, sia tra i brani stessi. Mahler e Ives probabilmente non si incontrarono mai, ma entrambi sovrapposero un paio d'anni di lavoro a New York. D'altro canto, anche Ernesto Napolitano, nel suo Forme dell'addio – l'ultimo Gustav Mahler mette in relazione proprio lo Scherzo della Quinta con Central Park in the Dark di Ives, guarda caso pensato per essere eseguito in coppia con The Unanswered Question.
La serata prende avvio con l'abbassamento di tutte le luci dell'auditorium. Sul palco, un numero ristretto di archi e qualche fiato, coi leggii illuminati dai led , come per il Finale della “Sinfonia degli addii”. Solo che qui non siamo alla fine, ma all'inizio del concerto. Un soave, morbidissimo tappeto sonoro degli archi, impalpabile, in un appena percettibile piucchepianissimo, apre The Unanswered Question, del 1908, poi revisionato nel 1930-35; il concerto diventa esperienza multisensoriale, e da dietro le quinte Roberto Rossi, prima tromba dell'OSN, intona per sette volte the Question, breve frase musicale effettivamente interrogativa, cui rispondono sei volte i legni, con due flauti e un clarinetto aggiuntivi dislocati in balconata, secondo indicazioni di Ives che li voleva distanti dal resto dell'orchestra, ogni volta sempre più dissonanti e con interventi più lunghi. Ne risulta, per la tromba, un effetto di grande distanza, come un suono perso chissà dove, in campagna o in una metropoli nel silenzio della notte. L'insieme di luci basse e sonorità inafferrabili restituisce un'atmosfera onirica, galleggiante, ma non serena, incrinata sotto la superficie dalle dissonanze dei legni, di grande suggestione. Suggestione che si crea grazie a Ives, ovviamente, ma anche grazie ai legni dell'OSN e alla mirifica coesione degli archi, che si confermano la sezione più convincente della compagine.
Senza intervallo, si passa al piatto forte e scendono in campo i rinforzi. Con l'orchestra al completo, tocca di nuovo a Rossi il compito di aprire la Quinta, con quel motto che ad alcuni ricorda Beethoven, ad altri Mendelssohn. Non che gli riesca benissimo: con tutta l'orchestra che tace è facile cogliere la minima imperfezione. E il tempo da prendere per quella problematicissima terzina è sempre arduo. Ma a fronte degli altri interventi lungo la Sinfonia, è manchevolezza più che scusabile. Arriva il primo pieno orchestrale e l'esposizione del primo tema della Trauermarsch, con cui si apre la Quinta, e si capisce, se ancora ce ne fosse bisogno, di che pasta è fatta l'OSN. E arriva anche il momento di riconoscere a Trevino la sua abilità nel trattamento di un materiale sonoro tutt'altro che facile. È il 1901, Mahler inizia la Quinta; la finirà l'anno dopo, lavorandoci come sua abitudine d'estate, ma i ritocchi e le correzioni si protrarranno fino al 1911, a pochi mesi dalla morte. Il nuovo stile mahleriano si lascia alle spalle il primo periodo compositivo ed entra nel secondo, puramente strumentale. La sua densità aumenta, l'intreccio polifonico cresce. La difficoltà nel dirigerlo, anche. Ce ne si accorge all'avvio del secondo tema, quello più languente, dapprima trattenuto da Trevino, come esitando a sbrigliarlo, poi lasciato andare, piangendo, come recita l'indicazione apposta ai violoncelli: la cristallinità con cui vengono rese le volute degli archi e il gioco di voci interne è mirabile, e con la partitura sott'occhio questa cristallinità è oro, ed enfatizza la bellezza del nuovo tipo di scrittura. È un peccato non poter trasmettere al lettore tutte le gradazioni e le sfumature, i rilievi dati ai numerosi interventi strumentali accentati o prescritti hervortretend (marcato) di cui è disseminata la Sinfonia: ma mi creda, se dico che con questa interpretazione Trevino è riuscito a sfaccettarla in maniera viva quale raramente è accaduto di ascoltarla. Ne beneficia parimenti l'ultimo movimento, il Rondò-Finale, non fugato in senso stretto ma contrappuntistico quale Mahler non era mai stato prima, con uno degli incisi ripreso dall'Adagietto e rifuso in una sostanza sonora più fresca, più viva, più dinamica, che non snatura la sua sublimità originaria, ma la ripensa calandola in quel vorticoso andirivieni di temi e sottotemi. Ne beneficia al punto che, personalmente, è la prima volta che lo trovo diretto con autentica chiarezza e che ne riesco ad apprezzare tutta la ricchezza.
A proposito dell'Adagietto, il movimento più famoso, Trevino sorprende nel dirigerlo non esattamente Sehr langsam, ovvero Molto lento, ma in modo piuttosto scorrevole. Pratica, a dire il vero, abbastanza comune, ma rischiosa, se non si hanno adeguate capacità. È facile convincere rendendolo struggente, grondante afoso ed estenuante decadentismo con in mente Morte a Venezia di Visconti (alla Bernstein, per capirsi). Ed è una delle possibili interpretazioni, forse anche più aderente al dettato mahleriano. Più difficile è convincere e coinvolgere eseguendolo più velocemente: da un lato si evita l'effetto noia, e va bene, o meglio l'effetto distrazione, sempre dietro l'angolo, ma dall'altro il rischio è che non riesca abbastanza languido. Trevino risolve tutto con la parola “eleganza”: un Adagietto meno adagio delle aspettative, nondimeno convincente in grazia di un'eleganza non comune, l'eleganza del levriero.
I pregi non bastano? Si aggiunga una corretta gestione delle pause tra un movimento e l'altro, a dare la dovuta compattezza e il dovuto respiro: penso al Tempestosamente mosso, secondo movimento, che segue a ruota il primo, senza pause, a sottolineare la loro appartenenza ad un tutto inscindibile, alla prima parte della Sinfonia, come rimarcato dai rimandi di materiale tematico (molto intenso, a proposito di questo movimento, il recitativo dei violoncelli soli sul pedale di timpano in pianissimo, oasi di pacata meditazione che poi si scioglie nel caldo arrivo delle viole); e penso invece allo stacco temporale netto tra questo e lo Scherzo, il movimento più esteso dei cinque e che da solo costituisce la seconda parte, centro gravitazionale attorno a cui orbitano i primi due prima, gli ultimi due dopo, anch'essi imparentati, come detto, per via di quell'inciso che dall'Adagietto trasmigra nel Rondò-Finale, anch'essi eseguiti senza soluzione di continuità.
Già, lo Scherzo. Il «tempo maledetto», per dirla con Mahler, il tempo più difficile a comprendersi, tutto un formarsi e dissolversi di nuclei tematici, il tempo che avrebbe voluto dirigere cinquant'anni dopo la sua morte. Ben più di cinquant'anni dopo, ecco riprendere vita in una direzione pregevole, quella di Trevino, che riesce da un lato a coglierne la voluta frammentarietà, dall'altro a dargli la giusta unità: giusta, quindi non eccessiva, ché un po' di quello smarrimento è quasi d'obbligo per entrare nel suo mood. Come obbligato è il corno richiesto da Mahler, qui il primo corno dell'OSN, Ettore Bongiovanni, che offre una prova non impeccabile (qualche sdrucciolone qua e là), ma sicuramente di grande valore nella resa espressiva, a tratti spavalda, a tratti malinconica, e che sa interpretare alla lettera il molto portamento chiesto in partitura. Di grande effetto la rarefazione offerta dal pizzicato degli archi durante uno dei Trii, con l'orchestra che tace e fagotto e oboe che punteggiano qua e là.
Il Finale corona in modo superbo la Sinfonia, non solo per la già ricordata chiarezza espositiva della trama contrappuntistica, ma anche per il suo vitalismo che, senza farsi sfrontato, conserva parte dell'eleganza dell'Adagietto e lo fonde con la sua naturale forza propulsiva. Un ultimo tentennamento poco prima della chiusa, e via verso i rintocchi finali, che suggellano la serata all'insegna di un successo veramente meritato.
Christian Speranza
11/11/2023
La foto del servizio è diPiùLuce.
|