RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il tragico Mahler

«Per me sinfonia vuol dire esattamente questo: costruire un mondo con tutti i mezzi offerti dalla tecnica di cui disponiamo»: quando Mahler scrisse questa frase, in una lettera del 1895 a Natalie Bauer-Lechner, stava lavorando, in pieno fervore creativo, alla sua Seconda Sinfonia. A ben vedere, però, è una frase che si adatta di più alle sinfonie successive. Per esprimere tutto il suo mondo interiore, per esempio, nella Sesta ricorre ad una gamma eterogenea di suoni, ad una folta schiera di percussioni: timpani, grancassa, rullante, tamtam, un fascio di verghe (da percuotere sul corpo della grancassa), glockenspiel, campane tubolari, ma anche xilofono (è l'unica sinfonia di Mahler a richiederlo), campanacci da mucca e un grosso martello di legno con incudine, anch'essa di legno. Questo organico così inconsueto (che valse al compositore una caricatura in cui, portandosi una mano alla fronte, esclama: «Mio Dio, ho dimenticato il clacson! Ora posso scrivere un'altra sinfonia…») è alla base di un massiccio e non facile organismo sinfonico scritto nelle estati del 1903- 4 a Maiernigg, sul Wörthersee (assieme alle Nachtmusik I e II della futura Settima), e presentato per la prima volta al mondo ad Essen nel 1905. «La mia Sesta proporrà enigmi che potranno essere affrontati solo da una generazione la quale abbia assorbito e digerito le mie precedenti cinque sinfonie»: parole di Mahler stesso. Il pubblico, infatti, restò disorientato di fronte ad una sinfonia di un'ora e mezza – la cui ultima mezz'ora occupata solo dal denso, complesso e vastissimo Finale (che Richard Strauss definì «sovrastrumentato») – saldamente sprofondata dall'inizio alla fine nella cupa tonalità di la minore, che non lascia spazio ad un barlume, sia pur minimo, di speranza. È singolare che Mahler l'abbia scritta in un momento felice della sua vita (assieme ai Kindertotenlieder: letteralmente i canti dei bambini morti…): un matrimonio avviato da poco con Alma Schindler; Maria Anna e Anna Justine nate da poco; una posizione di prestigio quale direttore stabile dell'Hofoper di Vienna. Ma quando un'indole inquieta dimora in una natura d'artista, le condizioni esteriori risultano ininfluenti, e la creatività segue sentieri che a volte si apre da sé.

La Sesta rappresenta il culmine (forse a parimerito con la Settima) della complessità in quanto a densità di scrittura orchestrale ed uso di linee melodiche simultanee, quasi che il cuore del compositore traboccasse dall'urgenza di dover comunicare tante cose tutte assieme, sovrapposte una all'altra: ciò giustifica in parte il dispiegamento di forze orchestrali non ancora mai sperimentato e la varietà dell'organico cui si accennava prima: i campanacci da mucca, per suggerire l'idea dell'alta montagna, luogo scevro dal dolore, oasi di tranquillità spirituale a contatto con la natura (la sinfonia venne infatti completata dopo un lungo giro sulle Dolomiti…); il martello, simbolo dei colpi del destino che si abbattono senza un perché, con una violenza senza giustificazioni. Mahler sapeva di aver composto un mostro sinfonico, ancor più della Quinta, Quinta che, rinunciando alla voce umana dopo tre sinfonie e svariati Wunderhornlieder, propone uno scenario di ascesa e liberazione, iniziando con una Trauermarsch (marcia funebre) e finendo con un brillante Rondò, gaio e luminoso. Qui, nella Sesta, no: la Sesta trova solo pochi e sporadici momenti di quiete, come la stasi onirica al centro del primo movimento, con i campanacci in distanza, il timbro diafano della celesta e il tremolo dei violini, su cui si adagiano, stupiti e rarefatti, i richiami del corno e del clarinetto (il vagheggiamento irreale di un morente sotto morfina…). Si apre su un selvaggio tempo di marcia (Allegro energico, ma non troppo) scandito da violoncelli e contrabbassi in ottava (provate a camminare sul tempo di queste prime note: è il tempo di un plotone che marcia a passo sostenuto), come l'avanzare di un destino implacabile, che non guarda in faccia nessuno; procede con uno Scherzo dalle movenze allucinate, interrotto da due Trii che Mahler annota ältervisch, cioè “alla maniera antica”, e la musica richiama, storpiandoli, i ritmi del Minuetto, delle antiche danze di corte, come un appello ridicolo ad una delicatezza che appartiene a un altro tempo; si rifugia poi nelle dolcezze malinconiche – ma mai così serene – dell' Andante moderato (che a tratti sembra già l'Adagio della Seconda Sinfonia di Rachmaninov) e approda al gigantesco Finale, aperto da un mobilissimo gioco di violini, celesta e arpe, strutturato in introduzione, sviluppo, ripresa e conclusione (quasi una forma-sonata), in cui si ricapitola e si conclude il percorso della sinfonia, conducendola, dopo questa immane altalena di emozioni, non già ad un esito di salvezza, come accadeva per la Quinta, ma ad un oscuro esito di condanna, di sconfitta definitiva, di annientamento di qualsiasi forza vitale. L'autore stesso non dirigerà più di tre esecuzioni di questa sinfonia, giudicandola «troppo difficile» (e per dirlo Mahler…): fino all'ultimo, per esempio, restò indeciso sull'ordine dei movimenti intermedi, se eseguire prima lo Scherzo o prima l'Andante. «Ma come può, un essere così buono, esprimere nella sua opera tanta crudeltà e durezza?» gli chiese un amico dopo la prova generale. Quando Alma ascoltò la Sesta eseguita al pianoforte, esclamò: «Per l'amor di Dio, tu chiami le disgrazie». Tentennamenti, oscuri presagi: tutto questo ruota attorno alla nascita della Sesta Sinfonia. E in effetti, nel 1907, l'anno della terza ed ultima esecuzione della Sesta diretta dall'autore, quando sul programma di sala comparve il titolo di Tragica, le «disgrazie» arrivarono davvero. Maria Anna (“Putzi”), la primogenita, morì di scarlattina maligna e difterite; poco dopo, durante una visita medica, il cuore di Mahler rivelò un'endocardite batterica che lo portò alla tomba nel giro di poco più di tre anni (1911); infine, il logorio e la tensione dei rapporti professionali portarono all'interruzione dei contatti con l'Hofoper di Vienna, del quale era stato direttore principale per dieci anni. Gli si apriva una strada nuova, sì: New York; ma era a Vienna che Mahler vedeva la realizzazione della sua missione artistica. Tre colpi fatali del destino, due colpi di martello nel Finale della Sesta. Quando gli venne chiesto perché, in una delle ultime correzioni, Mahler avesse espunto l'ultimo dei tre colpi concepiti in origine, egli rispose che, per far cadere definitivamente l'eroe immaginario di questa sinfonia, dopo i due colpi subìti in precedenza, non sarebbe servita una forza così grande…

La lettura proposta da John Axelrod della Sesta Sinfonia di Mahler alla testa dell'Orchestra Sinfonica della Rai (OSN), avvenuta venerdì 30 ottobre 2015 all'auditorium Arturo Toscanini di Torino, è stata quanto di meglio un mahleriano convinto potesse aspettarsi. Lo scrivente riferisce con vivo entusiasmo di un'esecuzione magistrale, forte di numerosi aspetti positivi. Uso a dirigere partiture di grande spessore (la Settima Sinfonia “Leningrado” di Šostakovic, presentata a marzo 2014 sempre con l'OSN), Axelrod restituisce al pubblico tutta la grandezza di questo capolavoro, concedendosi alcuni raddoppi strumentali non presenti nell'originale, ma giustificabili, date le dimensioni complessive dell'orchestra: due triangoli, due coppie di piatti, due corni inglesi, il raddoppio del timpano di la (quest'ultimo ormai di prassi in quasi tutte le esecuzioni della Sesta). Stupendo l'Allegro energico, ma non troppo: la condotta è davvero energica e l'Allegro è davvero non troppo; il metronomo è ideale, non troppo lasso, alla Barbirolli, non troppo spedito, alla Bernstein. I forti e i fortissimi non sono scoppi orchestrali: sono vere detonazioni! (Thomas Mann ricorda che durante le prove, Mahler si preoccupava che il suono non fosse sempre abbastanza potente). Contrabbassi e violoncelli in apertura di movimento danno un suono pieno, scuro, massiccio, gonfio di presagi; i corni, nella sezione mediana, paiono provenire da una dimensione ultraterrena, e il tremolo degli archi in pianissimo è quanto di più impalpabile si possa immaginare. Non mancano le finezze: il rilievo dato ai timpani nel corso dell'esposizione, ad esempio, che permette di notare l'uso molto più che percussivo, ma veramente melodico, dell'utilizzo che ne fa Mahler. La conclusione, in crescendo, non cede alla lusinga di accelerare il tempo. Lo Scherzo, in seconda posizione – in quella che, dopo i diversi ripensamenti e il diverso ordine di esecuzione nelle tre volte che Mahler diresse questa sinfonia, sembra essere quella più aderente alle intenzioni originali (fin dall'inizio lo Scherzo era destinato ad essere collocato subito dopo il primo movimento, ma Mahler rimase influenzato dall'osservazione che gli attacchi dell'Allegro energico e dello Scherzo, molto simili, avrebbero suggerito, uno dietro l'altro, un'impressione di ripetitività: ragion per cui, alla prima esecuzione di Essen, invertì l'ordine dei movimenti intermedi) –, è l'esatta combinazione di violenza espressiva e grazia cameristica, soprattutto nei Trii, dove gli archi paiono farsi leggeri e graziosi, e dove i vari accelerati, rallentati, ritenuti sono tutti motivati da una viva intelligenza interpretativa. Molto d'effetto l'uso del trascinato nei corni, come prescritto in partitura, sardonico come una risata mefistofelica, ed estremamente cupi i passaggi di contrabbassi, tuba e fagotti. La conclusione sfuma fino a svanire come la visione d'un miraggio. Meraviglioso ed intensamente sentito l'Andante moderato, col giusto rilievo dato al fraseggio delle note a due a due e al delicato gioco dei fiati (soprattutto del corno inglese). Epico il Finale: un'avventura dentro l'avventura, un percorso travolgente, appassionato, che dall'introduzione, tutta fremiti e sussulti, viene condotto fino all'ultima nota con un magistero impeccabile: bravo, Axelrod! Brava, OSN! Bravo, Mahler!

Christian Speranza

20/11/2015