Cronaca di un suicidio annunciato
La profonda provincia di una cittadina americana fa da sfondo, tranquilla e ordinata come la loro casa, alla vita di due donne, madre e figlia, vedova l'una, separata dal marito e con un figlio poco di buono la seconda. Sembrerebbe la consueta pièce sul rapporto tra una madre tirannica e una figlia succube, ma non è così, anche se le prime battute parrebbero confermarlo: il dubbio si insinua lentamente, sulle tracce di una pistola del padre defunto nascosta in soffitta, su strani armeggi della figlia e ancor più strane discussioni su malintenzionati che potrebbero aggirarsi nella zona…
Inizia così un inquietante atto unico di Marsha Norman, scrittrice americana classe 1947, che proprio con questo Buonanotte Mamma (‘night, Mother) vinse nel 1983 il Premio Pulitzer per la drammaturgia: è la storia di un suicidio annunciato, da parte di una donna che in esso vede, forse, l'unico atto libero e consapevole di tutta la propria vita. Epilettica senza saperlo, guidata con le dande da sempre da una madre che, nel vano e pietoso tentativo di proteggerla e di garantirle una vita normale, ne ha di fatto condizionato l'esistenza senza via d'uscita, preparando così il campo alla decisione finale della figlia. Sullo sfondo, in un'ossessiva presenza-assenza, il mondo maschile, distratto, superficiale, assolutamente pratico ma incapace di penetrare oltre la superficie delle cose. Ma quel che colpisce di più in questo lavoro che sin dal suo apparire sconvolse il pubblico americano è l'assoluta lucidità della figlia, il suo aver programmato tutto sin nei minimi particolari, vedendo già il dopo, la vita della madre senza di lei, e nel contempo la sua totale consapevolezza del fallimento di tutta un'esistenza, la sua piena autocoscienza di un'inadeguatezza inguaribile alla vita di tutti i giorni e ai rapporti con gli altri, esplicitata nella terribile frase riguardo al marito che l'ha abbandonata: “Chi parte, non mette il sacco della spazzatura in valigia”.
Dall'altro lato una donna anziana, anch'essa sprovvista di senso pratico al punto da essere a malapena in grado di badare a se stessa, che all'improvviso si trova scaraventata in un cono oscuro, dal quale lentamente avverte che non c'è più via d'uscita: patetica nel suo dolore, chiede alla figlia una dilazione, tenta di dissuaderla dicendole che il suicidio è un peccato (il che provoca solo una sprezzante alzata di spalle), intesse inutili richiami alla vita cercando di toccare tutte le corde del cuore della giovane donna.
Un lavoro che è espressione più alta del disagio familiare e sociale, visto nelle sue connotazioni più squisitamente esistenziali e non storiche, ospitato al Piccolo Teatro di Catania purtroppo per sole due repliche, il 5 e il 6 maggio, ma che senz'altro avrebbe meritato molte più rappresentazioni, e che potrebbe e dovrebbe essere ripreso, magari nella prossima stagione, anche per l'assoluta aderenza della regia di Romano Bernardi a un testo così denso di implicazioni nella sua semplicità: Bernardi ha messo tutta la sua esperienza e il suo profondo senso del teatro nel ricreare, grazie alle scene di Susanna Messina, un'apparenza di normalità perfetta, curata sin nei minimi particolari, dal detersivo per i piatti sul lavello agli strofinacci accuratamente piegati, dalla credenzina ordinatissima, della quale s'immagina l'assenza anche del più minuscolo granello di polvere, alla poltroncina dell'anziana madre. Su questo sfondo tranquillizzante, i continui movimenti per il palcoscenico della figlia, il suo ordinare e rassettare continuando a parlare non sembrano convulsi, ma solo maniacali come quelli di qualsiasi casalinga. Lo spettatore stenta a credere che quel che stia ascoltando sia possibile, magari si ostina a pensare a uno scherzo, ma come le due donne viene attirato nel cono nero, pian piano, senza accorgersene. Un gioiello registico, quello intessuto da Romano Bernardi, nel quale ogni elemento concorre ad amplificare il dramma delle due donne, la cui recitazione, anch'essa perfettamente calibrata al testo, avvince lo spettatore dalla prima all'ultima battuta senza un attimo di respiro.
Alessandra Cacialli, la madre, ha prestato al personaggio tutta la sua esperienza di attrice: svagata all'inizio come soltanto lei sa essere, è riuscita a dare il senso di una terribile consapevolezza che emerge pian piano, nella gestualità volutamente sempre più incerta sino al tremito delle mani, nei repentini passaggi di registro della voce, ora profonda e terribilmente seria, ora dolorosamente scherzosa, ora disperata e straziata nel finale. Quel che stupiva, era l'assoluto controllo della sua recitazione, dove la mimica più espressiva sorreggeva e accompagnava l'uso sapiente della voce, con una dizione sempre chiara, netta, immune da ogni tentazione naturalistica.
Accanto a lei, la giovane Maria Rita Sgarlato ha offerto una prova superlativa, soprattutto per l'eccezionale mimica facciale, che sin nel battito a tratti convulso degli occhi ha perfettamente reso una donna squilibratoa, insicura, ma allo stesso tempo preda di una lucida follia che si esprimeva nella voce, controllatissima, ora gelida nell'enumerare tutto quel che la madre avrebbe dovuto fare dopo, ora noncurante, talvolta ironica nel ricordare il suo passato coniugale, ora affettuosa dinanzi al dolore dell'anziana donna, il tutto sostenuto da una continua gestualità apparentemente nevrotica, all'interno della quale le pause, i silenzi, la voluta lentezza con cui entrambe le attrici recitavano alcune battute, sembravano cadere sullo spettatore come macigni in uno stagno.
Giuliana Cutore
7/5/2018
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