Un'Odissea senza tempo da cui Nessuno è escluso
Kairòs
I fratelli Mancuso.
Si chiama Forse, il bambino eritreo figghiu di ‘na simana senza duminica. E con quel nome irridente e beffardo la sua adozione è stata per i nuovi genitori una piccola, autentica via crucis seppure a lieto fine. Si chiama kairòs il tempo in cui Dio agisce, è l'altro kronos, il tempo designato nello scopo dell'Altissimo.
E non potevano esservi voci più appropriate e più “elette” giacché fatte di terra e di spirito di quelle di Enzo e Lorenzo Mancuso – musicisti, compositori, rabdomanti di etnìe musicali e poetiche, naturali e blasonati aedi di un'Odissea senza tempo da cui Nessuno è escluso.
Sono stati infatti i Fratelli Mancuso – voci che a cappella sono già orchestra ma non negano il loro personale corredo di chitarre, ghironda, saz, harmonium, darabouka (talvolta in formazione più allargata con pianoforte e violoncello) – sono stati loro, dunque, il liquor filosofico ed esistenziale oltre che artistico di “Kairòs”, un incontro in tre tempi e tre giorni dedicato alla spiritualità .
L'iniziativa (“Protagonisti, storie, luoghi, incontri della spiritualità”) sostenuta dal Comune di Noto, consuma quest'anno la sua prima edizione e fa capo all'Associazione culturale “Le rotte di Ulisse” – in testa Paolo Randazzo e Sebastiano Burgaretta, sodali da sempre nel nome dell'umanistica e dell'umanesimo nonché compagni di un'avventura fresca di stampa, la neonata casa editrice Santocono la cui collana Sphaerae ha appena licenziato Qoelet, un eretico nella Bibbia? di Brunetto Salvarani e Luoghi della speranza di Christian Albini, entrambe le pubblicazioni presentate nel corso del Festival netino.
E se è vero che danziamo nel caos – come annotava il grande Eugenio Scalfari in occasione del suo novantesimo genetliaco – altrettanto vero ed urgente è un kairòs per l'uomo e sull'uomo. E sull'Oltre.
Perciò, a Noto, i quattro luoghi deputati (la Biblioteca comunale, il Teatro Comunale Tina Di Lorenzo, il Convitto Ragusa, la Sala Gagliardi ) sono state piccole agorà di parola parlata (“Spiritualità e nuovi media” con Paolo Randazzo, Christian Albini, Roberto Fai, Corrado Lorefice; “Il restauro dell'arca di San Corrado” con Luciano Bombeccari; “Il teatro di Pubblico Incanto” con Tino Caspanello e Dario Tomasello) e téatron di poesia (stralci dei Four Quartets di T. S. Eliot ricompattati in “Oltre la porta chiusa” con Giuseppe Spicuglia, Eleonora Nicolaci, Miriam Scala, Giuseppe Montalto) e di drammaturgia (“Anche questa è vanità” di Salvo Gennuso liberamente tratto dal Qoelet con Elaine Bonsangue e Teresa Lorefice).
Ma esperanto di spirito e di carne resta la musica, quella di Enzo e Lorenzo Mancuso specialmente, riscritta e ascritta nella geografia del loro rituale abbraccio in scena, loro che sono aperti diaframmi di storia, casse armoniche pensanti, più che mai in “Come albero scosso da interna bufera”, il recital per Kairòs il cui titolo è preso a prestito - in potente, tonante affinità elettiva - da un verso di Eugenio De Signoribus, il poeta di Trinità dell'esodo.
E non ce ne vogliano se stavolta siamo noi a prendere in prestito una delle creature più incantevoli e incantate dei Mancuso, Via dolorosa, per ribattezzare il loro concerto al Teatro Tina Di Lorenzo per “Kairòs”, in meditata, appassionata consonanza con lo spirito della Settimana Santa.
Bella Maria, la Lamentazione della processione del Venerdì Santo nel loro paese d'origine, Sutera, Ti nni vai puisìa che accoglie cavallerescamente il loro omaggio alla Spagna, per i Mancuso terra d'adozione e d'elezione sin dai tempi della loro amicizia con Pablo Milanès e Silvio Rodriguez: “Comerìa fresco pan de harina preciosa, yo tambièn comerìa almendras doradas”… (e la voce-basso continuo sembra rammentare la dolente, morente Paloma di Caetano Veloso).
E come sempre e come non mai, la tradizione, intesa come consegna, si ripete e si rinnova: nella platonica caverna sonora dei Mancuso sembra che particolare e universale vengano fusi da un Efesto invisibile, lì dove tutti i folk del mondo s'intrecciano e si ri-conoscono, al di qua e al di là dell'Oceano, da Pete Seger in avanti e indietro.
E qualcosa che sembra arrivare ancor prima della contaminazione: il loro sapere d'altre terre – e non solo quelle che ci sono parenti come nel vocalese arabeggiante ma tracce concrete e rarefatte di un Nord di cui noi sembriamo innesto – sembra rimandare ad una radice comune, ad un Big Bang musicale e spirituale.
Ma non si esclude il nostos in un'Itaca onnipresente che pure non arriva mai, come Godot.
Ed è in quel “Sacciu chi parli alla luna” – intonato a un passo dal finale - in cui più che Ciàula di Pirandello sembra di vedere loro, le donne della Casa del Nespolo, a metà tra Verga e Visconti, tremanti e terrose come il canto e concentus di Enzo e Lorenzo.
Due voci nello stesso corpo, i Mancuso, tragedia e commedia dello stesso Mito che non è mai lo stesso, caduta e resurrezione di un rito che mentre detta omne trinum perfectum è nella dualità, nella dicotomia che affonda la sua ragione d'essere e di patire.
Carmelita Celi
16/4/2014
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