RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Ci sono sofferenze al mondo, ci sono problemi, ci sono i programmi di Barbara D'Urso… Perciò occorre coltivare passione e inquietudine…

Leonardo Manera

Un Candido a due punte.

La prima fa capo alla “vera” storia del “giovane al quale la natura aveva conferito i più miti costumi” dotato altresì di “giudizio retto, unito a una grande semplicità” per questo si chiama (“Io credo”, aggiunge ammiccante l'autore) Candide di Voltaire, il racconto filosofico del 1759, vera e propria scheggia contro l'accanito, leibniziano ottimismo del “migliore dei mondi possibili”.

L'altra punta è l'affabulazione beffarda e poetica, cinica e dolente, multiforme e segnatamente riconoscibile che ne (ri)crea Leonardo Manera, arguto e talentosissimo “animattore” del secondo appuntamento della stagione di “Comics” ideata e diretta da Marco Vinci e da qualche anno in collaborazione con il Teatro Stabile di Catania che ne ha, infatti, ospitato la performance nella Sala Verga.

Due “punte” per un unico, raffinato, esilarante, lirico pezzo di teatro di narrazione che del titolo originale conserva scientemente solo la seconda parte, L'ottimista (per quanto sul palco occhieggi la titolazione per intero) che diventa il principio fondante dello spettacolo. Al gran finale specialmente che coincide, sì, con il catturante epilogo dell'originale di Voltaire (“Ciascuno deve coltivare il proprio giardino” e che poi, giustamente, in Manera si converte nell'assai più familiare e consumato “orto”) ma non si fa scappare l'occasione per dar di gomito a vizi e vezzi del qui ed ora. Infatti, dopo aver dispiegato la lista delle cose che (gli) mettono tristezza, Leonardo-Candido insiste con malinconica saggezza sulla necessità d'essere ottimisti: “Ci sono sofferenze al mondo, ci sono problemi, ci sono i programmi di Barbara D'Urso… Perciò occorre coltivare passione e inquietudine”.

E ancora: “Se mio figlio deve diventare miope a furia di giocare alla playstation preferisco che si rovini gli occhi con il metodo tradizionale , sì, insomma, quello…”.

E se assesta un colpo alle fondamentaliste della ricostruzione delle unghie (“Lunghissime e cosparse di cristalli Swaroski, ottime per guidare manovre d'atterraggio…”), alla fine plana sull'irrinunciabile romance tra due maturi innamorati: Peynet in casa di riposo, insomma, in cui lui finalmente non sarà più affetto da “ansia da prestazione” ma felicemente colto da “stupore da prestazione”…

Dunque Candido.

E la fascinazione di Leonardo Manera sta nel mantenere quasi intatti i calori e i colori dell'acquerello filosofico di François-Marie Arouet detto Voltaire, dal pacioso, generoso castello in Westfalia del barone di Thunder-Den-Tronckht a Costantinopoli (passando per i bulgari) dove tutti insieme appassionatamente – Candido, Cunegonda, Cacambò, la vecchia e financo il frate che nel frattempo si è convertito all'Islam – vivono felici e contenti coltivando, appunto, il proprio orto.

Il punto – o meglio la “punta” – è che nello stesso “rosario”, Leonardo-Candido inserisce dei grani tragicomici che tradiscono il nostro grottesco presente.

Per esempio, Cunegonda per gli amici “ la Cune ” (a parte l'omen che si scorge nella prima parte del nomen) sèguita ad essere la “fresca, grassottella, appetitosa” figlia del barone di cui Candido è inguaribilmente innamorato ma al tempo stesso si muta in un'odierna “Miss Westfalia” che però legge i filosofi Cartesio, Rousseau, Moccia… Perciò quando pensa ai ragazzi si sente “tre metri sopra il cielo”. E, last but not least, ti martella dall'inizio alla fine con un raccapricciante leit motiv di un'Ambra Angiolini d'antan, prima cioè che diventasse attrice e molto brava per giunta ossia: “T'appartengo ed io ci tengo/e se prometto poi mantengo/m'appartieni e se ci tieni/tu prometti e poi mantieni”. Sicché in questa sede, Cunegonda che, in Voltaire, è davvero contesa (e spartita) tra un giudeo ed un inquisitore, qui è direttamente “posseduta a turno” ed esibisce un risibile curriculum d'infedeltà obbligata (sempre sulle note infami di “T'appartengo ed io ci tengo…ecc”).

Ma i sofisticati “siparietti” non si arrendono certo dinanzi al tanto satireggiato Pangloss - l'aio, leibniziano a oltranza - che, tedesco nell'originale, nella voce sommessa e proteiforme di Manera diventa un precettore dal curioso accento partenopeo, a metà tra Benedetto Croce e Roberto De Simone. E c'è pure la vecchia di travagliatissime e avventurose origini a cui il “Candido” Leonardo restituisce una vocina da nobilissimo cartoon e naturalmente risponde all'appello l'inseparabile Cacambò, sempre al fianco del protagonista, una sorta d'illuministico Sancho Panza, portoghese ma invece che “tutto lingua” come Pangloss, sorprendentemente poliglotta.

Piccola perla tra i non meno preziosi grani del “rosario”, la descrizione di un amplesso tipico tra un tipico lui ed una tipica lei, quasi una lezione (s)ragionata di (dis)educazione sessuale ricca di topoi succulenti del tipo “Prima di stare con te non l'ho mai fatto” (detto da lei, s'intende, sennò che luogo comune sarebbe).

Assoldare Leonardo Bonetti in arte Manera nell'armata del cabaret può voler dire tutto e niente.

Dice tutto se a prevalere è il kabarett ossia una lente impietosa e fermamente agrodolce puntata sull'esistenza; non direbbe nulla o quasi se, conquistati dalla sua immediatezza di “comunicattivo”, non si tenesse conto delle sue doti affinate e misuratissime di “comunicattore”.

La chiusura sembra quasi un contrappasso per l'insofferenza del filosofo di Candido nei confronti della pretesa leibniziana del “migliore dei mondi possibili”. O invece si allineano proprio con Voltaire: “Forse non sono stato abbastanza ottimista…”.

Carmelita Celi

7/12/2013