RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Poco morbide le trine di Manon

Andata in scena per la prima volta al Regio di Torino il primo febbraio del 1893, a otto giorni dalla prima del Falstaff a Milano, Manon Lescaut rappresenta quasi l'ideale passaggio di testimone tra Verdi, il musicista che aveva incarnato l'Italia risorgimentale e poi unitaria, e Puccini, il compositore che apre l'opera lirica alle tendenze più vive del Novecento, dove il lento lavoro di coesione e unità drammatica, di scavo sui personaggi, di superamento delle forme chiuse di aria e cabaletta, lavoro iniziatosi con Bellini e condotto alle sue estreme conseguenze da Verdi, si fonde con le istanze del wagnerismo, con le suggestioni orientali, e soprattutto con una nuova dimensione del canto che, per vie diverse dal Verismo, attuerà, paradossalmente, quel recitar cantando, quella profonda unità tra musica e vocalità che in altri e più moderni termini può essere definito come parola scenica.

Manon Lescaut, prima fra le donne immortalate da Puccini nelle sue opere, è, come poi Tosca e Butterfly, e in misura minore Mimì, una creatura sfaccettata, nella quale convivono senza mai armonizzarsi istanze psicologiche diverse, addirittura opposte: da un lato la frenesia autolesionistica per il lusso, per i gioielli, per tutto ciò che effimero brilla e splende, dall'altro l'amore assoluto, sensuale, istintivo per Des Grieux, che per lei forse rappresenta l'anelito ad un'autenticità vissuta nell'infanzia, ma ormai non più recuperabile se non, come appunto avverrà, a prezzo della vita. Femme fatale, forse, per Des Grieux, per il quale Manon è un'ossessione, ma piuttosto una donna la cui bellezza costituisce quasi una maledizione (Ah! mia beltà funesta ire novelle accende...), un don fatale identico a quello della principessa di Eboli. Eroina al confine tra le incipriate damine settecentesche e la belle dame sans merci del Decadentismo, la Manon pucciniana richiede un'interprete di grande temperamento, che unisca alla vocalità adeguata una versatilità attoriale in grado di aderire perfettamente ad un personaggio complesso e essenzialmente contraddittorio.

La Manon Lescaut andata in scena al Teatro Bellini di Catania il 19 marzo, con repliche fino al 26, si è avvalsa della regia di Paolo Gavazzeni e di Piero Maranghi, tratta da un allestimento di Pierfrancesco Maestrini, regia che è ben riuscita a rendere l'ambientazione storico-sociale dell'opera, con particolari scenografici di notevole effetto, quali una carrozza autentica con cavallo in carne e ossa nel primo atto, enormi caravelle nel terzo e inquietanti gole nel quarto, che hanno sottolineato efficacemente il carattere dei singoli episodi dei quali Puccini si è servito per delineare il personaggio di Manon. Anche la scenografia del secondo atto, dove si assiste al trionfo dell'aspetto cortigiano della protagonista, è stato reso con dovizia di particolari perfettamente coerenti con l'epoca della vicenda; unico neo, la mancanza del quartetto di suonatori sul palcoscenico durante la scena della lezione di danza, la cui presenza è invece prevista dal libretto, che avrebbe reso più credibile il tutto, e l'aver sdoppiato la figura del maestro di danza con quella di un altro ballerino che fa eseguire a Manon le movenze indicate dal maestro. Molto belli anche i costumi, realizzati con l'ausilio di Giovanna Giorgianni e particolare il taglio luci, che specialmente nel quarto atto (unificato in questa versione col terzo con il breve intervallo di un cambio scena) ha creato momenti di grande suggestione.

L'orchestra, diretta da José Miguel Perez-Sierra, ha mostrato la consueta professionalità, in particolare per quanto riguarda il settore archi; tuttavia, i tempi alquanto stretti imposti dal direttore e soprattutto una non accurata cesellatura delle sonorità, unita a lievi carenze nell'amalgama strumentale, hanno a tratti soverchiato i solisti, specie nel primo e nel terzo atto, e quel che più spiace hanno purtroppo impedito che la partitura trovasse un colore orchestrale adeguato a valorizzarla appieno. Precisi e puntuali gli interventi del coro, diretto come sempre da Ross Craigmile, ma anche qui le talvolta eccessive sonorità orchestrali e qualche defaillance negli attacchi hanno impedito che il complesso disegno ritmico-armonico di Puccini potesse dispiegarsi in tutta la sua notevole complessità.

Poco da dire dei musici, capitanati da Sonia Fortunato, che nel secondo atto cantano il madrigale scritto da Geronte per Manon: hanno intonato le loro parti con discreta correttezza, ma non sono riusciti a far emergere quella delicata leziosità tutta settecentesca che, nelle intenzioni del compositore, avrebbe dovuto da un lato fornire un tocco di colore dell'epoca, e dall'altro, evidentemente, costituire quasi un'oasi nel tumultuoso evolversi che di lì a poco avrebbe avuto la vicenda.

Emanuele Cordaro, nel ruolo del lascivo e crudele Geronte, si è dimostrato buon caratterista, sia da un punto di vista vocale che attoriale, mentre Stefano Osbat, Edmondo, che nel primo atto ha un'importante parte di fianco di Des Grieux, è risultato alquanto inadeguato alla vocalità del personaggio: tenore di grazia, ha stentato a trovare spazio nella complessa dinamica strumentale e corale delle scene dell'osteria, risultando a tratti scarsamente udibile.

Di buon livello la prestazione di Giovanni Guagliardo, che ha impersonato Lescaut, il fratello di Manon: dotato di voce robusta e abbastanza duttile, ha cantato con notevole scioltezza, non trascurando di far emergere tutti gli ambigui tratti del suo personaggio, volta a volta fratello interessato a trar profitto delle grazie della sorella, complice e congiunto sinceramente afflitto per la deportazione di Manon.

Marcello Giordani, nell'impervio ruolo di Des Grieux, è riuscito a supplire con la professionalità e la musicalità che lo distinguono a una ormai progressiva usura della voce, forse dovuta all'eccessiva poliedricità del repertorio: se gli acuti erano ancora spesso squillanti e non privi di smalto, il tenore tuttavia ha faticato parecchio nei legati e in particolare nei passaggi di registro, mentre il centro si mostrava spesso opaco, il che gli ha impedito di trovare i giusti accenti e la dovuta forza dell'emissione in “No! No!... pazzo son”, che è risultata priva di tutta la disperata tragicità e del traboccante pathos di accenti che la partitura richiede.

Nel ruolo eponimo, Alisa Zinovjeva si è disimpegnata abbastanza bene: soprano corretto e dotato di una buona tecnica, evidenziata soprattutto negli abbellimenti di “L'ora, o Tirsi, è vaga e bella…”, eseguiti con grande classe e precisione, ha trovato però la sua essenziale debolezza nei legati, che le hanno impedito di infondere alla celebre “In quelle trine morbide” quella sensualità che dovrebbe essere la quintessenza di Manon. Pur se fornita di una voce sufficientemente estesa, con acuti abbastanza luminosi anche se talvolta poco coperti e un centro di discreto spessore, il soprano lettone ha rivelato gravi piuttosto carenti che a tratti la rendevano a fatica udibile. Ma punto dolente di tutta la sua interpretazione è stato un canto monocorde, privo di adesione reale al personaggio, scolastico a tratti, e comunque poco espressivo, carenze queste che hanno reso la struggente aria finale “Sola… perduta… abbandonata” assolutamente priva di tragicità, sia da un punto di vista vocale che scenico.

Giuliana Cutore

20/3/2017

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.