RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Bob's Oddity

Se, come noi, si è avuta la fortuna di assistere a spettacoli di Robert Wilson, si va a teatro preparati a un'esperienza di grande spessore, che in qualche modo, nel bene o nel male, segnerà da quel momento in avanti la propria sensibilità verso l'Opera.

Una qualità su tutte va attribuita a Wilson, e cioè la capacità di aver codificato, nel corso di più di quaranta anni di carriera, un linguaggio inedito e particolarissimo, immediatamente riconoscibile. Le produzioni liriche non ne sono esenti, anzi, è forse proprio in questo genere che il suo linguaggio risulta più innovativo proprio perché in contrasto con tutto ciò che riguarda l'Opera così come siamo abituati a immaginarla. In un commento allo spettacolo contenuto nel programma, il regista, da sempre amante di schematizzazioni scenografiche e drammaturgiche, regalandoci una geniale astrazione, fa riferimento a un quadrato – i quattro atti – all'interno del quale stanno due triangoli sovrapposti, rispettivamente la vicenda di un uomo tra due donne e di una donna tra due uomini. Forse proponendo un'immagine un po' azzardata, siamo dell'idea che vi sia un terzo triangolo, stavolta estraneo alla trama, che racchiude l'intero modus operandi di Wilson, vale a dire la terzina costituita da regia, scene e luci, tre elementi che per questo grande autore risultano pressoché imprescindibili.

Vorremmo cominciare la nostra personalissima analisi – ma non per questo necessariamente inedita ed autorevole – dalla prima occhiata al palco del Comunale di Bologna pronto per la recita, privo di sipario: la metafora visiva immediata, lampante, è quella di un'installazione ultramoderna, leggermente minacciosa con la sua aria vagamente aliena, incastrata in un oggetto antico – un teatro all'italiana, una sorta di miglioria tecnica e tecnologica perfettamente incassata oltre il boccascena, che sortisce le stesse impressioni che dovettero avere i primi spettatori di 2001: Odissea nello spazio quando videro comparire il famosissimo monolite tra gli ominidi. Questa non è che la prima delle numerose azioni drammaturgiche destinate a creare un contrasto continuo – lo stesso Wilson dichiara di lavorare partendo principalmente da contrapposizioni simboliche e semantiche – e far vivere l'opera secondo una continua pulsazione, anche visiva, che oscilla tra il perfetto mondo automatico wilsoniano e la realtà terrestre in cui sono contenute la musica, le voci e i corpi con le loro imperfezioni.

Il primo abitante che vediamo in scena, mentre il pubblico prende posto, è un vecchio magro e dall'aspetto fragile, seduto placidamente a contemplare gli spettatori, con la sua saggia barba bianca, un cappello a cilindro in testa e un bastone da passeggio tra le mani: “è Verdi!”, si vocifera in platea , e all'improvviso l'omino strano si alza, lentamente si dirige sul fondo del palco, e nell'ultima luce prima che le scene siano inghiottite dal buio, fa un gesto plateale col braccio, come un piccolo dio che fa cenno al mondo di accendersi. Ora il mondo degli uomini è nelle mani del Maestro Steinberg e dell'Orchestra; la sua bacchetta, l'ideale testimone lasciato dal vecchio.

L'opera inizia così, con Ferrando e le sue nere guardie che fissano un punto lontano, oltre il pubblico, oltre il teatro. L'immediato riferimento all'entrata dei primi interpreti in una scena nera e tagliata da luci fredde è al teatro di figura e alla sua frontalità. Un teatro di burattini-automi catapultati in un universo gotico, mentre una netta linea di luce divide noi, terrestri che tossiscono e si schiariscono la voce – siam pur sempre in gennaio – da loro, fosche figure nere irrigidite in un ipnotico loop di movimenti corporei. I costumi di Julia von Leliwa, insieme al trucco realizzato da Manu Halligan costituiscono un'unica, bellissima entità e uniscono alla straniante, necessaria austerità, geniali note di ironia.

Bastano due minuti per capire come funziona la macchina, quanto sia palpabile la tensione creata dalla musica eseguita dal vivo contrapposta alla staticità dell'azione scenica, quale potenza possono acquistare le voci se dirette al pubblico frontalmente, senza movimenti del corpo. Marco Spotti, Ferrando, ha il compito di introdurci a questa eccezionale esperienza, e lo fa con una voce granitica, militaresca, che svetta tra le note del coro, perfettamente compatto ma agile e preciso negli accenti. Solidità e imponenza sono infatti qualità che ben si addicono alle voci maschili del Trovatore, e ne troviamo conferma nelle interpretazioni di Dario Solari, il Conte, affilato acciaio spagnolo, e di Riccardo Massi, nei panni di Manrico, che all'intensità sa aggiungere efficaci vene di sentimentalismo, realizzando così il suono perfetto che ci si aspetta da un autentico trovatore gitano. Sarà forse la suggestione generata dal triangolo proposto dal regista, ma questo Manrico è il vero e proprio cardine tra i suoni maschili e quelli femminili, la voce che ci instrada verso il gioiello musicale più prezioso di questa recita, un insieme di colori e caratteri davvero sorprendenti: Ines, Tonia Langella, voce dolce e delicata, sostiene egregiamente la portentosa interpretazione di Guanqun Yu, una Leonora perfetta in questa versione wilsoniana. L'apice viene raggiunto con l'interpretazione di Nino Surguladze, Azucena, dotata di un'incredibile capacità modulatoria e di un'espressività che raramente capita di ascoltare.

Vale la pena soffermarsi, ancora una volta, sulla regia di questo spettacolo, e aggiungere qualche altro elemento che ci preme approfondire. L'impressione che abbiamo avuto infatti, è quella di uno scrigno dal quale un regista teatrale alle prime armi potrebbe – e dovrebbe – attingere a piene mani. Non ci stanchiamo di ribadire con quale maestria luci, scene e azione riescano a concorrere alla magia dello spettacolo, viste la facilità e la leggerezza con la quale vengono evocati luoghi e atmosfere attraverso l'uso di strani personaggi che calcano la scena, artifici scenici, proiezioni, lampi improvvisi. Il complesso spartito luminoso che ci regala Wilson é un prodigioso sottotesto intraducibile, visionario ed etereo, che si contrappone all'emiliana materialità della musica di Verdi. Ascoltare la scena, vedere la musica.

Giovanni Giacomelli

1/2/2019

Le foto del servizio sono di Lucie Jansch.