RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Da Rigoletto al Trovatore

La “trilogia popolare” di Verdi, proposta sinotticamente nella sua interezza al Teatro Municipale di Piacenza, prosegue con la seconda tappa, Il trovatore, venerdì 07/11/2025. Il progetto vede per i tre titoli la stessa regia (di Roberto Catalano, con scene di Mariana Moreira, costumi di Veronica Pattuelli, luci di Silvia Vacca e coreografie di Marco Caudera), lo stesso cast, o quasi, e lo stesso côté musicale (direzione di Francesco Lanzillotta, Orchestra Sinfonica di Milano, Coro del Municipale di Piacenza). Un tour de force soprattutto per gli interpreti, chiamati a memorizzare tre libretti e tre ruoli, da tenere preparati per un doppio giro di recite e da alternare nell'arco di poche sere, non esente da rischi e imprevisti. La bronchite di Francesco Meli, che ha compromesso il Rigoletto di due sere fa, non sembra avere avuto strascichi sul Manrico di stavolta, che esce anzi vincitore da una valida prova. Lanzillotta abbandona il podio a fine recita zoppicando vistosamente e si affaccia appena alla ribalta; ma la serata inizia con la commemorazione della recente scomparsa di Viviana Mologni, timpanista della Sinfonica di Milano, cui viene dedicato un minuto di silenzio in piedi.

A fare da fil rouge non è solo l'omogeneità di artisti e maestranze, ma anche lo stesso disegno registico, la stessa estetica. Permane il contrasto cromatico bianco/nero, con netta prevalenza di quest'ultimo, in un allestimento che dipinge un Trovatore a tinte fosche; permane l'essenzialità, qui ancor più stringata che nel Rigoletto, con pochi oggetti in scena, quelli indispensabili a suggerire, più che a delineare, un ambiente. E, sia per garantire la continuità, sia per praticità e contingenza, alcuni sono gli stessi che traslano da uno spettacolo all'altro. Ecco di nuovo il fondo di bianca, marmorea architettura classicheggiante, tutta ad archi, lesene e oculi, che qui accennano al palazzo dell'Aliaferia (qualche concessione alla coerenza stilistica…). Al centro del palcoscenico, braci in cui Azucena rovista. Peccato che l'eccessiva semplificazione porti, nel secondo atto, alla scena nuda, talché i gitani sono costretti a mimare i colpi sulle incudini (riportate in orchestra) con manate sul pavimento; il duetto Manrico/Leonora al terzo atto avviene poi nel buio e nel vuoto totale (che a ben pensarci potrebbe voler dire che per loro in quel momento non esiste altro: «Ah, due che s'amano ~ son tutto un mondo!»); un semplice arco a tutto sesto, al centro della scena, riconduce all'idea del chiostro, quando Leonora sta per prendere il velo; quattro pali incrociati a cavallo di Frisia servono a legare Azucena al terzo atto. Permangono qua e là i lampadari elettrici, fuori epoca; ma il taglio registico è tale, col ricorso anche ai luoghi-non luoghi, che la collocazione cronologica esatta non sia fondamentale, mirando più a una rappresentazione ideale e proiettata, in parte astratta, che didascalica – benché, come nel Rigoletto, rispettosa dello spirito del libretto –; e anche in parte simbolica, grazie al figurante-Voldemort, nel Rigoletto associato alla maledizione e qui associabile alla vendetta di Azucena (e che il concetto di vendetta passi dal Rigoletto al Trovatore è evidente), tant'è vero che compare nei momenti clou in cui è rievocato il martirio della madre di Azucena – suggestivi i giochi di luce con la sua silhouette dietro un telo e della sua figura quando si staglia nel vano rosseggiante del fondale, chiudendo la recita come s'era aperta.

Scure le scene, scuri i costumi, che si fondono col pavimento nero (su cui alcuni stracci a volte minacciano l'equilibrio dei cantanti). Mantelli e tabarri ancora neri, in tinta con guanti e stivali, caratterizzano i personaggi maschili, coro compreso; il pettorale metallico del Conte, con sulle spalle un mantello dai riflessi blu, denota la sua natura battagliera, che non depone mai l'intera armatura; Manrico è su toni leggermente più chiari. Sobrio ed elegante il lungo abito perla di Leonora, che rifletterebbe la sua eleganza intima e la sua saldezza.

Se registicamente si colgono i collegamenti con la recita precedente, per quanto l'escamotage del figurante-maledizione-vendetta permetta dello spettacolo una lettura tanto integrata nel progetto globale, quanto autonoma, da un punto di vista direttoriale si ha un approccio differente. Lanzillotta non bada qui molto a sottigliezze timbriche, a differenza del Rigoletto – benché anche in questo caso emergano dettagli orchestrali interessanti, specialmente per legni e ottoni, tromba e clarinetto in primis –, per sbrigliare l'orchestra e tenerla viva, aizzante, molto vigorosa. Stacca infatti tempi sostenuti, financo talvolta baldanzosi, “guerreschi”: una Pira rapinosa e secca ne sia l'esempio cardine. Da questo punto di vista, il merito dell'Orchestra è di seguire da presso le sue indicazioni, sostenendo il canto pur senza prevaricarlo. In sintesi, una concertazione forse meno attenta che nel Rigoletto, ma nondimeno efficace. Nota di merito qui per il Coro del Municipale, diretto da Corrado Casati, splendidamente compatto e spontaneo anche nelle movenze, differenziate per i vari componenti, pur in movimenti di massa piuttosto convenzionali – tutti qui, tutti lì, metà di voi qua vadano, e gli altri vadan là – imposti dalla regia, caratteristica condivisa anche nel Rigoletto.

Si venga dunque al cast, comune, si diceva, tra le varie recite, tranne qualche eccezione. È ancora fresca la défaillance di Francesco Meli nel Possente amor di due giorni fa; questo sia ricordato non a suo detrimento, ma a suo merito, perché, araba fenice, il suo Manrico risorge validissimo, attingendo a risorse insperate che gli fanno ritrovare uno squillo preciso e lucente, un volume vocale di tutto rispetto e fiati di lunga durata. Da un lato gioca a suo favore la volontà del progetto di una restitutio in integrum delle tre opere, che si attengono in tutto a ciò che ha scritto Verdi: niente puntature di tradizione al Do acuto in Di quella pira, quindi, ma ripetizione della cabaletta e niente acuto conclusivo. Meglio così quindi per un Meli ancora imbronchito, che gioca in difesa, in cui si avverte qualche piccolo cedimento subito ripreso, ma che quando si sente sicuro si lancia in esibizioni davvero pregevoli. Prova ne siano non solo la solida e spavalda Pira, ma anche il fraseggio, la cura del vocabolo, le sfumature, i colori, le dinamiche ben differenziate e le mezze voci, di cui si conferma padrone e maestro, unite, come si diceva, a volume, potenza e fiato, a cui dà fondo in una riuscita e sentita Ah sì, ben mio che riscuote giustamente prolungati applausi a scena aperta.

Così come applausi a scena aperta si conquista Maria Novella Malfatti. Dopo aver ascoltato la sua Gilda, interpretando la quale ha convinto in qualità di soprano lirico, la sua Leonora si difende bene riconfermando un timbro tendenzialmente scuro ma non ombroso, musicalità e morbidezza d'espressione, una pasta vocale omogenea e rotonda, che si apre bene in acuto – prendendo con sicurezza il Do acuto in Tacea la notte placida, per esempio. Il ruolo richiederebbe forse un peso drammatico superiore; ciò non toglie che il personaggio rimanga ben sbozzato, con una natura nobile, saldamente ancorata agli eventi; per questo forse le parti di maggior afflato lirico si avvantaggiano della riuscita migliore e le fioriture non montano a una maggiore vaporosità, per quanto ben sgranate e corrette. E gli applausi più convinti sono per D'amor sull'ali rosee .

Una natura non così nobile, bensì più da villain, emerge dall'interpretazione del Conte di Luna di Ernesto Petti. Se Rigoletto, un personaggio più viscerale e caustico, si attaglia meglio alla sua espressività, del Conte non può che prevalere la natura possessiva e gelosa. La grana scura e un po' ruvida della sua voce gli dà manforte in questo, assieme al volume piuttosto pronunciato. Viene quindi molto bene Di geloso amor sprezzato e la cabaletta Per me ora fatale, in cui le frequenti puntate all'acuto non lo mettono in difficoltà; e quell'«Ho le furie nel cor!» suona davvero… furioso. La relativa uniformità coloristica che questa interpretazione comporta, un personaggio tutto sommato monolitico, viene arricchita nel duetto con Leonora al quarto atto e nel Balen del suo sorriso, che oltre a essere ben fraseggiato, ben articolato, curato nella dizione e nel vocabolo, risulta anche più vario nei colori. Si conquista anche lui il favor di pubblico, che ricambia la sue prestazioni con applausi conditi da Bravo!

Teresa Romano dà vita a un'Azucena intensa, drammatica e coinvolgente sulla scena, e mette a disposizione dell'unica madre verdiana di rilievo uno strumento piuttosto chiaro, per il tipo vocale cui appartiene, che, se non trova la sua espressione migliore nel registro grave, pure sfoggia un'apprezzabile facilità d'involo nell'acuto. Una Vampa corretta e sicura è solo il preludio a un Condotta ell'era in ceppi di ancor più memorabile incisività.

Ben fatto anche per Adolfo Corrado, qui apparentemente molto più a suo agio come Ferrando che come Sparafucile. Il suo Di due figli si fregia d'un cesello appropriato, sostenuto da buone intenzioni espressive, da una voce generosa, ampia, di solida tempra e colore brunito, che si distingue bene anche nel terzo atto.

Si menzionano infine Greta Carlino (Ines), Simone Fenotti (Ruiz), Omar Cepparolli (Un vecchio zingaro) e Lorenzo Sivelli (Un messo), nell'insieme di buon livello attoriale e canoro.

Si accennava prima ai possibili rischi che un progetto tanto ambizioso può correre, al netto di imprevisti quali la bronchite di Meli. A tale sovraccarico di note e parole possono imputarsi comprensibilmente le due amnesie di Malfatti – al primo atto in Tacea la notte placida, al quarto nel duetto col Conte – e quella di Romano, che omette ahimè il nucleo di tutta la tragedia, quell'«Egli era tuo fratello!» su cui si basa tutta l'opera. Lanzillotta è lesto a dominare le impasse; e a non conoscere l'opera non ci si sarebbe neppure fatto caso; anche questo è il bello della diretta.

Christian Speranza

9/11/2025

Le foto del servizio sono di Gianni Cravedi.