Ballo a tre
Un ballo in maschera è l'anti Traviata: lì una glorificazione dell'amore sublimato (nonostante la professione della protagonista), qua l'apoteosi dell'amore sensuale (però non consumato, quindi tanto più devastante). Il denominatore comune è la solitudine: ma se Violetta, a ben vedere, non riesce a comunicare con nessuno, Riccardo e Amelia amanti platonici e Renato cornuto in pectore interagiscono fortemente. È il resto del mondo, semmai, a scorrere fantasmatico sotto i loro occhi, come se al di là di quel triangolo amoroso nulla potesse più esistere. Da tale visione è scaturito il Ballo in maschera meno realistico e più visionario che si ricordi a memoria di spettatore, dove la stratificazione degli ingredienti messi in opera da Verdi – passionalità e lirismo, elemento drammatico ed elemento brillante – viene ricondotta a unità da un solipsismo trasognato con pennellate espressionistiche. Ne siamo debitori al regista Johannes Erath, che dal 2016 propone questo spettacolo alla Bayerische Staatsoper di Monaco, ogni anno con qualche cambiamento di cast ma sempre affidandosi allo stesso protagonista. Anzi, è verosimile che senza Piotr Beczala una messinscena così non sarebbe mai esistita. Beczala, polacco, è tenore né italiano né “all'italiana”: inutile chiedere al suo Riccardo la malia sfavillante non solo di Pavarotti o Di Stefano, ma di Jussi Björling. È però un Riccardo che, sulla scia del Jan Peerce toscaniniano, conosce il male di vivere proprio in virtù del timbro poco seducente; che restituisce l'anima divisa in due del personaggio grazie a una voce un po' disomogenea; e nel quale perfino lo squillo della perorazione amorosa – su cui l'emissione di Beczala può contare – s'intorbidisce, ripiegandosi nella voluttà della rinuncia. Gli si potranno preferire altri modelli, ma è difficile restituire altrettanto bene l'idea di un uomo intrigato con la morte: e la smagata arroganza con cui si sottopone, all'inizio dell'opera, a una roulette russa (una degli spunti più forti della regia di Erath) è un colpo di teatro che resta nella memoria e sigla lo spettacolo.
In questo corpo a corpo tra Riccardo e i fantasmi della sua mente, il proteiforme andamento del libretto (sei quadri ben distinti tra loro) si agglutina – forzatura più apparente che sostanziale – in un ambiente unico, disegnato con sicuro senso estetico e Konzept rigoroso da Heike Scheele: una stanza dell'Io dove campeggia l'archetipico talamo nuziale, attraversata da una smisurata, freudiana scala a chiocciola. In basso la scalinata termina con una botola da cui usciranno i personaggi più sulfurei, a cominciare dai congiurati; e pure in alto sfocia verso un altrove parimenti mortifero: un soffitto a specchio, che riflette il letto dove questa volta, però, giace morto Riccardo, o almeno il suo “doppio”. Ma la stanza – di volta in volta sala di governatorato e antro di fattucchiera, «orrido campo» e ambiente domestico – è la scatola scenica mentale anche di Amelia e Renato: sicché lo spettatore, rinunciando all'idea di un Verdi narratore super partes, segue gli eventi in soggettiva, guardandoli di volta in volta con gli occhi del tenore, del soprano, del baritono. Così come il letto al centro scena ospiterà alternativamente gli incubi di Riccardo, i sonni affannosi di Renato, l'adulterio mancato di Amelia.
Gli altri hanno cittadinanza solo nella mente del terzetto protagonista: sottratta alla sua spelonca e privata dei clienti creduloni (qui Erath fa cantare il coro dietro le quinte, come fosse un nebuloso riverbero anch'esso) Ulrica è pura voce dell'inconscio, non a caso presenza muta pure all'alzarsi e al calar del sipario. Alisa Kolosova le conferisce una ossimorica limpidezza contraltile (nel senso che gli affondi più gravi vengono onorati con fluidità priva di forzature) e una dizione criptica ma, nello specifico, non disdicevole, enfatizzando l'indeterminatezza del personaggio. Anche Silvano, ruolo strumentale rispetto ai talenti stregoneschi di Ulrica, si avvantaggia di tale rilettura “cameristica”: senza la presenza del coro in scena, il rapido assolo concessogli da Verdi si trasforma in vero primo piano e Andrew Hamilton sa trarne profitto. Semmai perdono qualcosa Samuel e Tom, che la regia, imprimendo loro abiti funerei e movenze cabarettistiche, di fatto trasforma in una figura unica (sicché Andrew Harris e Bálint Szabó appaiono privi di fisionomia precisa). Quanto a Oscar, la sua ambiguità ormonale sembra lasciarlo a mezza strada pure sul piano drammaturgico: dopo esser stato un frivolo accessorio per quasi tutto lo spettacolo (né Deanna Breiwick, soprano leggero di volume contenuto, potrebbe offrire molto di più), nel finale si erge a coprotagonista con una propria dolorosa ontologia e il suo travestimento femminile nel ballo conclusivo si trasforma in imprevedibile, disperato svelamento di un amore verso Renato, che lo porterà alla fatale rivelazione sul costume indossato da Riccardo. Sicché, tra tanti Oscar fedeli alla musa del fluid gender, questo concepito da Erath resta il più doloroso e inquietante.
Restano gli altri due lati del triangolo, Roman Burdenko e Sondra Radvanovsky, che al pari di Beczala sono artisti fedeli al precetto verdiano del cantar sulla parola, ma, al contrario del collega, possono contare su uno strumento morbido e omogeneo. Il primo, benché baritono di tinta chiara, sfoggia dei centri non meno sonori degli acuti, dizione perfetta, pregnanza di intenzioni: Renato è un ruolo che parte faticosamente con un'aria che è tra le meno amate del pubblico, ma Burdenko lo affronta fin dal principio con gran senso dei dettagli e una dolorosa amarezza che impone subito il personaggio. Del tutto ammaliante è poi la prova della Radvanovsky, Amelia sotterraneamente connivente con l'incubo che le è toccato in sorte, appassionata e dignitosa, nobile e masochista, luminosa nel registro acuto e sensuale in quello grave, capace di amplissime campate vocali (stupefacente il suo Consentimi, o Signore). Dispiace solo che Paolo Arrivabeni – ultimo arrivato, dopo molti avvicendamenti sul podio, ad amministrare musicalmente questa ripresa dello spettacolo – sia bacchetta così poco incisiva sul piano ritmico. Che poi quello della Bayerische Staatsorchester resti un suono privilegiato, è un'altra faccenda.
Paolo Patrizi
29/6/2022
La foto del servizio è di W. Hösl.
|