I Masnadieri tornano a Roma
Delude la regia di Popolizio, al suo esordio operistico
Grandi ambizioni solcano l'animo del giovane Verdi. Quando, sull'onda dei recenti successi, riceve la commissione per una nuova opera da rappresentarsi a Londra, pensa subito al Lear shakespeariano. Solo le perplessità dell'impresario Lumley lo fanno recedere da un proposito che abiterà a lungo nel suo animo, restando come il suo più amaro rimpianto. Eppure il compositore, nel volgersi infine ai Masnadieri di Schiller, forse inconsciamente aveva scelto un soggetto per molti versi affine. La vicenda del vecchio padre detronizzato ricorda quella vergata da Shakespeare, con una coppia di fratelli rivali a sostituire le tre figlie del re. Solo apparentemente Karl e Franz rappresentano i due opposti versanti del bene e del male. In realtà sono entrambi simboli dell'eroe inquieto e ribelle, scosso da un vitalismo folle, in eterna e disperata lotta contro il mondo e le leggi che lo governano. La riduzione librettistica operata da Andrea Maffei non rende giustizia al dramma. La vicenda appare frammentata e confusa, le istanze dello Sturm und Drang rinchiuse in una gabbia operistica di stampo convenzionale. Anche dal punto di vista musicale Verdi non osa, ma si affida a schemi collaudati e a un linguaggio di natura sostanzialmente accademica. La paurosa ambiguità dell'animo umano, che in Rigoletto verrà svelata con ben altra maestria, resta qui incerta e appena abbozzata. Si pensi al gesto conclusivo di Karl, il quale arriva a sacrificare l'amata (evidente il parallelismo con il biblico episodio di Isacco), per non venir meno al giuramento che lo lega ai masnadieri. Nella declinazione di Schiller l'omicidio ha una propria negativa grandezza in quanto infrange qualsiasi illusione di ritornare a un ordine definitivamente spezzato, mentre nella versione operistica il tutto appare come una inspiegabile follia degna delle incongruenze drammaturgiche del Trovatore. Solo a tratti Verdi si scrolla di dosso le convenzioni, come quando confeziona per il perfido Francesco una scena apocalittica nella quale questi si vede chiamato a rispondere delle proprie colpe all'Eterno. Una partitura caduta nell'oblio, rappresentata al Teatro dell'Opera un'unica volta, nel lontano 1972, e oggi riproposta nell'allestimento di Massimo Popolizio, al suo esordio nel teatro musicale. In un'epoca votata all'attualizzazione a tutti i costi, il regista compie una scelta opposta. Trasporta l'azione in un medioevo brutale e corrusco, pervaso da una tinta oscura che mortifica il perenne agitarsi delle passioni romantiche. Popolizio appare purtroppo ignaro delle necessità della musica, abbandona sovente i personaggi a sé stessi trascurando la recitazione, fissa il coro in una imbarazzante immobilità. Alcune scene sono in aperto contrasto con l'azione come quando Carlo e Amalia, invece di abbracciarsi dopo essersi ritrovati, prendono contatto tramite le estremità di una lancia. L'inutile trasporto di una passerella avanti e indietro per la scena è specchio di uno spettacolo povero, se non privo, di idee. Le immagini simboliche proiettate sullo schermo appaiono didascaliche, mentre i cieli plumbei e tempestosi non sono sufficienti a definire la complessità del dramma.
Altrettanto grigia la direzione di Roberto Abbado, preda di una maniera che frammenta il tessuto musicale invece di saldare le architetture narrative. Il mestiere non basta a rivitalizzare una partitura di per sé non eccelsa, alla quale avrebbero comunque giovato maggiori fantasia e dinamismo. Riguardo il cast, Stefano Secco mostra buona volontà e una discreta tenuta, ma lo spessore drammatico non appare adeguato al ruolo. La giovane Roberta Mantegna, scelta nell'ambito del programma per giovani artisti del Teatro dell'Opera, fa una buona figura nel ruolo di Amalia, considerando la comprensibile emozione del debutto. Giuseppe Altomare, chiamato a sostituire l'indisposto Artur Rucinski come Francesco, ha voce generosa anche se non troppo rifinita. Arriva alla fine un poco affaticato, ma la sua prova è comunque apprezzabile. Buono il Massimiliano di Riccardo Zanellato, sufficiente Dario Russo nel suo breve intervento come Moser. Infine Saverio Fiore dona spessore al personaggio di Arminio.
Riccardo Cenci
6/2/2018
La foto del servizio è di Yasuko Kageyama.
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