Borderline
Di padre italiano e madre croata, nato – in Istria, nel 1854 – suddito dell'impero austroungarico ma morto – in Friuli, settantacinque anni dopo – cittadino del Bel Paese, studi di composizione distribuiti tra Vienna e Milano, Antonio Smareglia restò un musicista di frontiera, ghettizzato nell'isolamento di chi, appartenendo a più culture, è condannato a sentirsi straniero in patria. Anagraficamente figlio della generazione verista, occhieggiò ad altre bussole (la stella polare wagneriana, innanzi tutto) e altre tradizioni (il bacino musicale slavo-mitteleuropeo): riconoscendosi, semmai, in quella “musica dell'avvenire” che si caratterizzava più per il rifiuto dello statu quo ante – il grande lascito romantico, certe formule verdiane ormai cristallizzate – che per una proposta organica (e che comunque, negli ultimi bagliori dell'Ottocento in cui Smareglia ottenne i suoi primi successi, poteva dirsi un'esperienza già conclusa). Un agnosticismo politico che lo portò a disinteressarsi alla causa irredentista fece il resto: con il nuovo secolo venne progressivamente ostracizzato e obliato, né – salvo sporadiche riproposte in area triestina e iugoslava – una sua rinascita si è mai profilata all'orizzonte. Tuttavia, quando un grande dimenticato incontra un grande sottovalutato si possono creare fertili alchimie. Certo: è difficile dire se Nozze istriane andate in scena al Festival Illica di Castell'Arquato sarà il preludio a una Smareglia renaissance. Sta di fatto, però, che la rassegna musicale dedicata dal bel borgo medievale piacentino al genius loci – Luigi Illica, appunto – è da almeno un paio d'anni (benché il festival esista da un decennio) imprescindibile punto di riferimento per ridisegnare la parabola artistica d'un letterato a tutto tondo, non solo librettista; e che comunque, pure a volerlo considerare solo sotto tale veste, fu ben più di quella “mano sinistra di Giuseppe Giacosa” che sfornò alcuni tra i più imperituri libretti pucciniani. L'“Illica senza Giacosa” rappresentò formidabile fonte d'ispirazione per Mascagni, Giordano, Catalani e, appunto, Antonio Smareglia; né d'altronde Nozze istriane, scritto nel 1895, fu l'unico frutto prezioso nato dalla collaborazione tra il socialista Illica e l'apolitico Smareglia: resta tuttora in cerca di recupero un capolavoro come I pittori fiamminghi, considerati a suo tempo una sorta di Meistersinger italiani.
Sta di fatto che Nozze istriane rimane, tra i titoli del compositore di Pola, il più eseguito – o il meno dimenticato. La connotazione ambientale vivida senza bisogno di scantonamenti bozzettistici; le suggestioni folcloriche filtrate attraverso un gusto musicale “alto”; la vicenda da fatto di sangue proletario che discende dal successo di Cavalleria rusticana – la coppia protagonista della première (Gemma Bellincioni e Roberto Stagno) fu la stessa dell'hit mascagnano – ma ripensato in un contesto di “verismo settentrionale” che con Verga o Capuana ha ben poco in comune e guarda, semmai, al naturalismo ligure di Remigio Zena; il plot cruento che si stempera in un registro incline al visionario e all'evocativo (pochi anni dopo Tiefland di D'Albert, altra opera verista del nord mai entrata nel nostro lessico familiare, si avvarrà della stessa cifra stilistica): sono tutte caratteristiche, oggi come ieri, che dovrebbero catturare lo spettatore più curioso. Il successo arriso alla produzione di Castell'Arquato ha confermato le potenzialità dell'opera, grazie pure alla bacchetta di Jacopo Brusa, direttore artistico del festival, che restituisce sia il passo spedito della partitura (Smareglia dispiega la materia narrativa lungo tre atti, ma vi ottiene la stessa sintesi che Cavalleria raggiunge grazie alla dimensione del rapido atto unico) sia gli echi wagneriani, assai eloquenti nel secondo quadro. L'Orchestra Filarmonica Toscanini lo corrisponde bene, senza quelle imprecisioni che talvolta inficiano gli spettacoli all'aperto: e se lo stesso non è sembrato per il coro, resta il dubbio che la responsabilità sia di un'amplificazione non sempre bilanciatissima.
Poco più d'una mise en espace, ma di estrema abilità, è poi la regia di Davide Marranchelli, che sfrutta la cornice della piazza del municipio per dipanare la vicenda: artisti che scendono dall'angusto palcoscenico e si muovono tra il pubblico, personaggi che cantano dalle finestre delle case circostanti, una figurante che lascia pendere uno smisurato velo da sposa giù dalla torre del Palazzo Pretorio. L'abito nuziale è d'altronde, insieme a una Madonna prima troneggiante e poi abbattuta, il vero protagonista dello spettacolo (elementi scenici e costumi sono firmati da Anna Bonomelli) e, lungo un'ora e tre quarti di musica, saranno in più d'una a indossare questo feticcio immarcescibile, ora status symbol ora viatico di morte. Insomma, una messinscena che va per segni: corroborata però – uscito dalla porta, il verismo rientra dalla finestra – dalla recitazione minuziosa dei cantanti, tutti esemplari per capacità attoriali e nettezza di dizione.
Sebbene Nozze istriane ponga al centro il classico triangolo con soprano e tenore innamorati tallonati dal baritono rivale, l'attenzione di Smareglia sembra concentrarsi sugli altri personaggi. È il caso della ragazza-madre Luze, motore involontario della tragedia, cui viene affidata una nenia restituita dal mezzosoprano Giovanna Lanza con un canto poetico e allucinato. Ed è il caso dei due “cattivi”, basso e basso-baritono: l'uno genitore tanto più ottuso quanto più spietato, metà Pantalone e metà padre di Giulietta, l'altro uno Jago pasticcione e fondamentalmente inconsapevole, dove la malvagità deriva dal bisogno di arrangiarsi. Graziano Dallavalle e Filippo Polinelli li pennellano con gestualità plastica e fraseggio icastico, sebbene il primo appaia vocalmente più saldo.
Belloccio e rassicurante, in taglia di puro baritono lirico, Francesco Samuele Venuti rende giustizia al personaggio del rivale, respinto sì ma innamorato davvero e omicida solo suo malgrado. Non arriva invece a ottemperare tutti i desiderata del ruolo il tenore Giuseppe Infantino, che, alle prese con l'unica scrittura autenticamente verista di tutta la partitura, abbina al canto generoso più d'uno slittamento di emissione. Mentre giunge alla quadratura del cerchio Sarah Tisba: protagonista magnetica nella bellezza dignitosa e proletaria, nella drammaticità trattenuta, nel canto denso di ombreggiature. Grandi applausi per tutti, alla fine, con l'auspicio d'una rinascita di questo repertorio. A proposito, Castell'Arquato diede i natali pure a un grande direttore artistico, vittima – come Smareglia – di un'autentica damnatio memoriae : Sergio Segalini. Che sia ricordato anche lui.
Paolo Patrizi
14/7/2023
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