«E mi renderò immortal»
La locandina, nei consueti colori rosso, giallo e nero del Donizetti Opera Festival, raffigura la silhouette di un direttore sul podio con le braccia aperte. Ricorda un po' Stokowski all'inizio di Fantasia, un lavoro per bambini ma con dentro musica di qualità.
È più o meno quello che succede con Il piccolo compositore di musica, «farsa giocosa per musica in due atti». Johann Simon Mayr, italianizzato in Giovanni Simone, dovette divertirsi un mondo a comporla, libretto compreso, e ancor più a metterla in scena, a Bergamo, il 13 settembre 1811. Un maestro attento, Mayr, che per i suoi allievi delle Lezioni Caritatevoli di Musica, sorta di conservatorio gratuito per i talentuosi bambini meno abbienti, approntava saggi di fine anno non solo come elenco di arie e pezzi di bravura, ma come piccole operine vere e proprie (o «farse», come si dicevano all'epoca, di argomento leggero e non troppo lunghe; proprio con le farse Rossini iniziò la sua carriera). Aveva già fatto qualcosa di simile con La prova dell'Accademia finale, del 1810, in cui venivano ritratte le attività quotidiane di apprendimento nella scuola. Il piccolo compositore di musica si inserisce in questo filone, e come ne La prova non si tratta solo di coinvolgere gli allievi e di farli cantare e recitare: vien loro richiesto di impersonare se stessi! Personaggio principale è l'allora quasi quattordicenne Gaetano Donizetti, il più dotato della scuola, il piccolo compositore un po' sbruffoncello che si vanta di comporre fulmineamente e già vagheggia fasti e trionfi; gli fanno da spalla quattro compagni, Antonio Dolci, Giuseppe Manghenoni, Giuseppe Pontiroli e Antonio Tavecchi, che sbeffeggiano il giovane Gaetano fino a fischiargli sonoramente una sua composizione; afflitto, Gaetano corre a dirlo a uno dei direttori, i quali, per bocca degli allievi, dettano la morale: chi è stato favorito dalla natura non si vanti, e chi lo è stato un po' meno non denigri gli altri.
L'interesse del musicologo si volge a questo lavoro, portato in scena al Teatro Donizetti di Bergamo nell'unica data del 2 dicembre 2023 nell'ambito del suddetto Festival, anzi tutto perché si tratta di un lavoro che, citato nelle biografie donizettiane ma creduto perduto, manzonianamente perierat et inventus est da parte di Candida Mantica, ricercatrice presso il Dipartimento di Musicologia e Beni culturali dell'Università di Pavia (sede di Cremona); e poi perché permette di dare un'occhiata ravvicinata a quali brani servissero allora da apprendimento per i giovani compositori della scuola. La struttura a centone, a pastiche, di questa farsa rimpolpa infatti lo scheletro di Introduzione, Finali, recitiativi e arie di Mayr, talora prese in prestito da alcuni suoi lavori precedenti (Dell'ardir che in voi lampeggia e Io?… tu?… che intesi! da Adelasia ed Aleramo, 1806; Quest'è dunque la Scizia? da Gli Sciti, 1800, oltre a inserti da Che originali!, 1798), con arie di altri compositori contemporanei: Accusato qual ladro a Lione da Gli sposi bizzarri (o infatuati) di Sebastiano Nasolini (1801), Cari amici, è pur forte dall'Aristodemo di Stefano Pavesi (1807) e brani da I virtuosi ambulanti di Valentino Fioravanti (1807). Per questo il frontespizio della partitura riporta che la musica è di Mayr «e varî Celebri Maestri». Non inverosimilmente, la struttura mobile a pannelli indipendenti favorisce la sostituzione più o meno libera di altri brani, come è stato fatto nel presente allestimento.
Allestimento che porta la firma di Francesco Micheli, assistito da Giorgio Pesenti e con luci di Alessandro Andreoli, e che fa sua la visione fortemente metateatrale del lavoro. Entrando in platea, il pubblico vede già tutto, il sipario è aperto. Dobbiamo immaginare che «La scena si finge nella Sala, in cui si tengono le Lezioni di Musica». Sullo sfondo è disposta l'Orchestra Politecnico delle Arti “G. Donizetti – G. Carrara” di Bergamo, diretta da Alberto Zanardi, assistente di Riccardo Frizza, che proprio con questa produzione debutta al Donizetti Opera Festival con un organico poco più che cameristico, flauto, oboe, due clarinetti, due fagotti, due corni e archi, secondo la disponibilità dell'epoca; Orchestra che, assieme all'omonimo Coro, istruito da Cristian Gentilini, anima la recita in modo intelligente ed equilibrato, quest'ultimo eleggendo Simona Andreoletti, Erica Artina e Jessica Pantarotto quali elementi di spicco per accompagnare i solisti. Parentesi: all'epoca le Lezioni dovevano fornire principalmente cantanti alla Cappella della Basilica di Santa Maria Maggiore e i ragazzini erano ancora voci bianche. Per questo i compagni di scuola, in questa produzione, vengono impersonati da voci femminili, eccezion fatta per Donizetti e Pontiroli, a motivo di una voce già mutata (Gaetano non brillava per la sua voce: si distingueva per altre qualità). Citiamole, allora, queste voci: Antonio Dolci è per noi il mezzosoprano Maria Elena Pepi, la prima a esibirsi da solista in Non so più cosa son, cosa faccio, l'aria di Cherubino da Le nozze di Figaro di Mozart. La sostituzione, la scelta e l'adattamento dei numeri originali, giustificati in nome di quanto detto prima e di una spiccata predilezione di Mayr per Mozart (tanto più che la musica di Mayr è squisitamente di stampo fine-settecentesco), è a cura del duo Micheli-Pesenti. Pepi esibisce un affascinante timbro già maturo e corposo nonostante la giovane età, e riesce a vincere una certa timidezza (che fa rima con tenerezza in chi scrive), trasmettendo al pubblico la stessa emozione che le traspare dagli occhi e da alcune emissioni leggermente esitanti – ma forse per questo ancor più adatte all'aria e al personaggio mozartiano, percorso dai primi brividi della passione erotica. In ordine alfabetico, come un appello in classe, dopo Donizetti, di cui si dirà a parte, incontriamo il Giuseppe Manghenoni della cubana Sabrina Gárdez, soprano brillante dalla voce cristallina, un fine e promettente usignolo dal nitido squillo che si esibisce nell'aria di Rachelina Nel cor più non mi sento, da La molinara di Paisiello (il cui tema Beethoven utilizza per le Sei Variazioni per pianoforte WoO 70). L'appello prosegue col Giuseppe Pontiroli di Davide Zaccherini, tenore, per il quale viene scelta Oh del mio dolce ardor, l'aria di Paride dal Paride ed Elena di Gluck; anche per lui giudizio positivo grazie a un bel portamento e una tecnica molto ben sfruttata. Chiudiamo con l'Antonio Tavecchi di Floriana Cicìo, che si produce in Porgi, amor, qualche ristoro, l'aria della Contessa, nuovamente dalle Nozze mozartiane. Siamo di fronte a una voce di morbida pastosità (ma che sfodera notevoli acuti nella disfida con Manghenoni/Gárdez), una voce cremosa e ambrata, cui si adatta meravigliosamente l'aria assegnatale, lo sfogo controllato di una Contessa ormai disillusa, non più della Rosina del Figaro rossiniano, ma di una donna riflessiva, posata, che non a caso si chiederà Dove sono i bei momenti? Tutto questo già traspare nella prestazione di Cicìo, in ciò dimostrando naturalità e maturità artistica che, ne sono certo, non farà che progredire.
Promossi tutti, dunque, gli allievi della Bottega Donizetti, non solo in veste di solisti ma anche di membri di duetti, terzetti ed ensemble, eredi, in fondo, della scuola di Mayr. Lo dice Micheli durante lo spettacolo: i suoi interventi parlati colmano le lacune della partitura più o meno là dove si inseriscono le arie solistiche dei compagni di Donizetti. A tal proposito, stando nel contesto della metateatralità, notiamo che si tratta di allievi di una scuola di musica che interpretano allievi di una scuola di musica che a loro tempo hanno interpretato loro stessi. Un gioco di scatole cinesi che conduce Micheli a fare una breve presentazione dei singoli artisti, poco prima delle loro esibizioni, conversando con loro e facendo loro leggere brevi testi, scavando nel loro essere persone prima che cantanti. Sembra un po' di assistere al format di Amici, tanto più che anche qui ci si domanda se tutte queste esternazioni della loro vita privata siano veritiere o artefatte in funzione dello spettacolo (in un caso o nell'altro recitano bene); si parla per parole-chiave, per Pepi AMORE, che compare sul grande led-wall in fondo al palcoscenico (costantemente utilizzato per permettere agli allievi di videomaking del Politecnico di abbinare immagini e sequenze a ciò che avviene in scena), ANSIA per Gárdez, FORMAZIONE per Zaccherini, SOLITUDINE per Cicìo e BULLISMO per Donizetti, quando viene fischiato per la sua scena, con relativi discorsetti buonisti francamente un po' fuori luogo ma utili ad allentare la tensione (anche per gli artisti) di uno spettacolo che nasce per tenere un tono leggero e scanzonato.
Donizetti, dunque: nel giorno del centenario della nascita di Maria Callas (02/12/1923), il Bergamasco più famoso del mondo, versione adolescente, rivive nei panni del messicano Eduardo Martínez, prodigiosa e poderosa voce baritonale che in più di un'occasione non manca di sorprendere per potenza ed espressività, anche quando viene invitato da Micheli a esibirsi in un canto popolare della sua terra. Dal ruolo più comico, da basso buffo, più sillabato, dell'incipit, Qual infuocata quaglia, a quello più melanconico, Donizetti, cos'hai fatto (su musica di Fioravanti), Martínez riesce a convincere esibendo varietà di atteggiamenti che lo predispongono a una carriera dai ruoli variegati. Felpa arancione e jeans (mentre gli altri sono tutti in nero, intuitivamente “mimi” dei compositori/allievi originali, mimi di loro stessi), entra dalla platea e risale sul palcoscenico, animato dal fuoco della Musa che lo ispira e che lo porta a comporre vicino al fortepiano, sulla sinistra della ribalta, alla cui tastiera siede la Maestra Hana Lee, che accompagna i recitativi secchi, tutta in bianco. Poco più avanti rispetto all'orchestra, verso il pubblico, trovano luogo dei banchi – siamo pur sempre in aula, no? – e ancora più avanti uno spazio libero, come per un Pierino e il lupo. Ed è lì che avviene la recita vera e propria, che nel suo svolgersi si tinge di vestiti multicolori, di pittura verde per il viso di Manghenoni, di teatrino delle ombre per Don Chisciotte e Sancho Panza nella scena di Dulcinea, che Donizetti compone e che viene fischiata da veri fischietti per lunghi (e fastidiosissimi) minuti, perfino di palle colorate verso la fine, una arancione portata oracolarmente da Donizetti/Martínez come fosse una sfera di cristallo da cui promana la verità della morale conclusiva, in omaggio al libretto in cui il cuore «balzando, ruotolando / come palla in aria va». Uno spettacolo vario, mai statico, zeppo di trovate (Donizetti che si sfoga scrivendo un diario sul portatile, mentre sul led wall si delineano i versi del suo recitativo; caso simile per chat di Whatsapp proiettate), di spunti di riflessione, di notizie storiche, non ultimo una vetrina per giovani voci emergenti (ma che hanno già avuto in passato alcune particine). Micheli si riscatta qui da regie di dubbio gusto proposte in edizioni passate, trovandosi nel suo elemento quale “conduttore” di questo Amici in diretta dall'Ottocento e dando vita a uno spettacolo che sfonda la quarta parete, metà recita, o se vogliamo, metà finzione (metà-…-teatro…), metà realtà. Alla fine, l'urlo liberatorio dietro il sipario ricorda che tutti, cantanti, strumentisti, tecnici, performer, ecc. sono persone, prima che artisti, come si diceva: ed è lì che si (con)fondono i due piani e che il teatro assume la sua dimensione più vera.
Quanto a Donizetti, che nel comporre Quale infuocata quaglia sogna la gloria promettendo a se stesso: «E mi renderò immortal», be', direi che ce l'ha fatta.
Christian Speranza
5/12/2023
Le foto del servizio sono di Gianfranco Rota.