Di quanti esseri al mondo hanno anima e mente,
noi donne siamo le creature più infelici…
Liborio Natali e Luana Toscano
Sin dai tempi di Euripide Medea è stata l'incarnazione della donna barbara, avversa o comunque estranea ai valori greci, al ruolo sottomesso e isolato della donna che la civiltà ateniese imponeva: cultura essenzialmente misogina, quella greca, che già vedeva nella libertà delle donne spartane un esempio pericoloso, e che ha partorito inquietanti figure mitiche come le sirene, le arpie, le furie, spaventosi esseri femminili la cui unica funzione era mettere a rischio la vita o la tranquillità degli uomini. L'unico femminino accettato in Grecia era quello olimpico, e nella sua declinazione più razionale possibile: Atena, dea nata per partenogenesi dalla testa di Zeus, patrona dell'Attica e incarnazione delle virtù guerriere e domestiche, depositaria e garanzia di un cosmos, di un ordine, al cui polo opposto stava la ctonia Ecate, dea primigenia dei crocicchi e connessa al mondo infero. E non a caso il mito vuole Medea nipote del dio Sole e nipote di Circe, che trasformando in porci gli uomini tenta comunque di asservirli, svelando al tempo stesso quella sozza parte animale che è insita nella loro stessa natura. Euripide era ben cosciente di tutto ciò come solo un greco può esserlo: Medea è perfida perché donna, ma è particolarmente perfida perché straniera, perché connessa più di altre donne con un mondo oscuro, opposto alla solarità apollinea e alla razionalità di Atena, mondo oscuro del quale ogni donna partecipa, e nel quale sono annidati i peggiori istinti e i più ancestrali poteri della razza umana. Jean Anouilh, nel 1946, riprende il personaggio della maga della Colchide, come aveva già fatto con altre eroine della classicità, non per rielaborarne il mito o modernizzarlo assurdamente, come magari farebbero oggi tanti autori e registi, ma per trarne tutta la sua eternità atemporale, estrapolando dal personaggio di Medea ciò che è simbolo di una condizione umana che ancor oggi ci perseguita: la paura del diverso, del non quotidiano, dello straniero, della passione che sfocia nell'autodistruzione, passione che nel suo negare l'istinto di sopravvivenza pone l'uomo in certo senso al di sotto della bestia.
Il dramma, un intenso atto unico, è stato proposto per la prima volta a Catania al Teatro Musco il 12 e il 13 ottobre, per la regia di Sebastiano Mancuso, in coproduzione con la compagnia italo-francese Absinthe Teatro e con l'associazione greca Menippos.
Su una scena dominata da un'unica, tozza piramide a gradoni, l'eterna tragedia di Medea si è snodata tesa, serrata, annunciandosi in tutta la sua sconvolgente umanità nel dialogo tra la maga e la nutrice, cui Anouilh ha assegnato un ruolo primario assente in Euripide, sostituendo in essa il coro greco, commento e supporto dell'azione. La nutrice, interpretata con sofferta partecipazione da Antonella Scornavacca, rappresenta in certo modo l'istanza femminile di normalità, la donna ormai anziana stanca di errare, di seguire ovunque la sua padrona, e ansiosa di autorelegarsi in un cantuccio fatto di piccole cose, quasi l'istanza Biedermeier che si oppone a ogni titanismo, permettendo però nel contempo a quest'ultimo di emergere in tutta la sua straripante potenza. E anche Giasone, smessi i panni euripidei dell'uomo razionale che vuole allontanare da sé la straniera, diventa un essere più problematico: Medea è come un cancro che lo divora, ma come il cancro è parte della sua stessa essenza umana, è quell'istinto alla devianza che affligge tutti, che fa paura e affascina al tempo stesso. E di questo piccolo uomo Liborio Natali, con fine intuito drammatico, è riuscito a esprimere tutte le paure, i dubbi, le lacerazioni, in un crescendo di sofferenza che altro scopo non aveva che far emergere senza freni la titanica diversità di Medea, il suo non poter essere normale, il suo essere straniera, ma non solo in Grecia, ma soprattutto in un mondo, ieri come oggi, heideggerianamente dominato dalla chiacchiera e dall' inautenticità.
Luana Toscano, Medea, ha compreso perfettamente la nuova dimensione del personaggio rielaborato da Anouilh, ed è riuscita a contemperare la classicità di Medea con questa sua universalità atemporale, con una recitazione prorompente ma sempre controllata, con una gestualità efficace e pregnante, dove la disperazione della donna si mischiava alla perfidia della maga classica, la gelosia all'orgoglio olimpico della donna progenie di dèi, la sofferenza della madre all'atroce spirito di vendetta della donna che il destino ha abituato a uccidere.
La regia di Sebastiano Mancuso ha evitato ogni sbavatura, restituendo il testo nella sua cruda essenzialità e lasciando che l'atemporalità del mito emergesse anche dai costumi, volutamente moderni quelli degli uomini, classicheggianti quelli delle donne, quasi ammiccando a un dramma che non è solo esistenziale, ma anche storico e generazionale, il dramma del diverso costretto a convivere con un'anodina normalità, il dramma del nuovo che irrompe ferino nel vecchio dominato da una moralità stantia e obsoleta. In tale maniera, Mancuso è riuscito a rendere quasi palpabile la doppia valenza del mito di Medea, mito della diversità che come tale viene osteggiata dalla normalità, ma anche mito della donna come vita primigenia, vita che fluisce nonostante tutto, così come fluenti erano le vesti femminili in questa mise en scène, opposte alla rigida compostezza di un maschile tutto volto alla normalità.
Giuliana Cutore
16/10/2019
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