I due volti di Faust
Nel Mondo di ieri Stefan Zweig usa l'espressione uomo anfibio per definire la dualità insita nell'animo di Ferruccio Busoni, ovvero quel singolare collocarsi in periglioso equilibrio fra l'italianità delle origini e le elettive affinità che lo legano alla cultura tedesca. Una posizione scomoda che segna l'alterità di questo compositore ingiustamente trascurato. Merito del Maggio Musicale Fiorentino aver proposto nel Festival di carnevale la sua opera maggiore, quel Doktor Faust che appare davvero come la summa della sua parabola creativa. Un lavoro che vide la sua prima italiana proprio a Firenze, nel 1942, e che qui trovò ultima incarnazione scenica nell'ormai lontano 1964. Il senso di sradicamento, il sentirsi esiliato e solo di fronte all'eclissarsi di un intero mondo acuiscono in Busoni l'anelito totalizzante, il sogno utopico di abbracciare l'intero scibile umano. Di questa brama inappagata lo spettacolo di Davide Livermore coglie i languori e i lancinanti turbamenti. Tutti i personaggi portano una maschera che raffigura il volto del compositore, a riverberare le ossessioni che infestano l'animo dell'autore. In quest'ottica Faust e Mefistofele appaiono simboli di una dicotomia intestina, del lacerante dissidio che attiva il processo compositivo; un percorso particolarmente travagliato nella scelta del soggetto, ambizioso nelle sue smisurate aspirazioni, labirintico per le incerte traiettorie che ne segnano l'incompiutezza (l'edizione andata in scena utilizza il completamento di Philipp Jarnach). L'agognata catarsi resta un miraggio. Opera aperta e idealmente senza fine, come L'uomo senza qualità di Musil, o come gli universi abissali partoriti dalla fantasia di Borges. Non a caso lo studio di Faust viene rappresentato da un'enorme sala ingombra di libri, alla quale un foro centrale nel soffitto dona prospettive inusitate, mentre pareti a specchio duplicano le apparenze come in un racconto del già citato scrittore argentino. Le proiezioni a cura di D-Wok, pur nella loro cinematografica spettacolarità, non appaiono gratuite ma assolvono a una funzione drammaturgica. Così le tematiche del tempo, dello sdoppiamento, del destino e della morte trovano corrispettivi visivi oltremodo efficaci, grazie anche all'impianto scenico ideato da Giò Forma. L'elusione del modello goethiano indica una scelta poetica precisa; rifacendosi all'antico spettacolo faustiano di marionette, Busoni assimila e fonde le forme della tradizione, musicali quanto teatrali, nel suo peculiare crogiolo alchemico, ottenendo un risultato di estrema originalità. Il gusto dei movimenti scenici ripetitivi, pregni di inquietudine per il loro svelare le ossessioni interiori, richiama il dibattito novecentesco sulla libertà delle figure meccaniche, prive dei condizionamenti sentimentali. Fulcro drammatico la scena della corte di Parma, dove l'azione assume vesti mondane. Il meraviglioso e il magico, evocati dal mago Faust, scaturiscono dal pianoforte del virtuoso Busoni, completando in tal senso l'identificazione fra il protagonista e l'autore che è la cifra più evidente dello spettacolo. Personificazione del primigenio istinto sessuale il satiro cornuto che letteralmente abusa della Duchessa di Parma, materializzando le pulsioni demoniache che aleggiano sulla vicenda. Nel finale enormi ingranaggi occludono le prospettive celesti, a indicare lo scorrere inesorabile del tempo e la portata tragica del dramma. La poetica di Livermore si scopre profondamente adatta a un lavoro che, pur nella costruzione formale perfettamente calibrata, plasma materia astratta e vertiginosa.
Esecuzione mirabile grazie alla concertazione attenta ma non fredda di Cornelius Meister. Il direttore modella i caratteri eterogenei dell'ardua partitura in un universo perfettamente coerente e colmo di fascinazioni. L'Orchestra del Maggio, unitamente al Coro, risponde ai suoi massimi livelli. Riguardo il cast, Dietrich Henschel è un Faust collaudato, avendolo inciso con Kent Nagano, scenicamente e attorialmente convincente, ma dalla vocalità a tratti appannata. Dal punto di vista espressivo non sempre riesce a veicolare le complesse sfaccettature proprie del personaggio. Gli sta accanto il Mefistofele di Daniel Brenna, incisivo nell'accento ma non esente da fissità in una zona acuta particolarmente sollecitata dalla massacrante scrittura. Joseph Dahdah, nel duplice ruolo del Duca di Parma e del soldato, sfoggia un timbro ricco e una vocalità generosa. Altrettanto valida la Duchessa di Parma di Olga Bezsmertna, in grado di rendere il progressivo cedimento della nobile orgogliosa di fronte alle seduzioni del magico. Ottimo infine Wolfgang Schwinghammer, anch'egli coinvolto in un duplice impegno (Wagner e il maestro di cerimonie). Buone le parti di contorno. Teatro non colmo come l'occasione avrebbe meritato, ma comunque attento ed entusiasta verso gli interpreti. Riccardo Cenci
19/2/2023
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