Per non dimenticare
La seconda guerra mondiale ha fatto conoscere all'umanità, oltre agli orrori tipici di ogni guerra, un nuovo, inedito tipo di follia criminale: le deportazioni e gli eccidi di massa. Migliaia e migliaia di persone, soprattutto civili, furono prelevate a forza dai loro paesi di origine, in nome di una presunta superiorità razziale, e confinate nei campi di concentramento o di sterminio: la superiorità razziale, naturalmente appannaggio dei tedeschi, era solo un comodo espediente, destituito di ogni fondamento scientifico, per sbarazzarsi di ebrei, rom, omosessuali, avversari scomodi, insomma di chiunque fosse d'impaccio, per motivi economici e sociali, al Reich e alla follia paranoide di Hitler. L'esempio, naturalmente come tutti i cattivi esempi, venne seguito da altri, e l'esistenza di campi di prigionia anche in Unione Sovietica, o delle famigerate foibe, o dei campi di concentramento in Italia, o in seguito gli eccidi compiuti da Pinochet o da altri dittatori, di destra o sinistra che fossero, l'esistenza di questo pullulare di assassini, insomma, è stato spesso addotto quasi a criterio di discolpa da certi deficienti che si ostinano a giustificare l'eccidio degli ebrei, come se il fatto che esistano più criminali renda il crimine più leggero e magari perdonabile, mentre invece sta soltanto a significare che la storia ha conosciuto una serie di efferati assassini, li si voglia chiamare Duce, Führer, compagno Stalin o in mille altri modi.
In questi campi di morte furono sterminati anche intellettuali, musicisti, cantanti, compositori, spesso rei soltanto di essere ebrei o omosessuali, col risultato di distruggere quasi una generazione di artisti; miglior sorte, per fortuna, toccò ai militari fatti prigionieri durante le tante campagne di conquista in Africa, o arrestati dai tedeschi dopo l'8 settembre in Italia. Anche fra costoro, com'è naturale, si trovavano persone che nella vita civile erano tutt'altro, e che cercarono di alleviare a se stessi la prigionia tentando di fare quello che facevano prima della guerra. Molti erano musicisti, anche di valore, e con la forza della disperazione continuarono a comporre, a suonare, a tentare insomma di rimanere uomini.
Nacque così una serie di composizioni, che oggi vengono pazientemente raccolte, edite ed eseguite, e che vanno sotto il nome di musica concentrazionaria, una musica cioè creata “in cattività o in condizioni estreme di privazione dei diritti fondamentali dell'uomo”, come scrive Francesco Lotoro, uno studioso pugliese considerato oggi il massimo esperto di questo tipo di produzione artistica, nel breve articolo contenuto nel programma di sala del Concerto della Memoria con cui il Teatro Bellini di Catania ha voluto commemorare appunto il 27 gennaio, data in cui, nel 1945, le truppe sovietiche liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, svelando contemporaneamente al mondo l'orrore che per anni e anni vi si era svolto.
Il concerto, preceduto da una breve introduzione appunto di Lotoro, che con grande commozione ha illustrato al pubblico le vicende esistenziali di questi compositori rimasti per parecchio tempo in campi di prigionia militari in condizioni di grave deprivazione fisica e morale, ha visto sul podio Paolo Candido, direttore d'orchestra che da anni collabora con Lotoro nel processo di riscoperta ed esecuzione di tali musiche, il quale ha diretto l'orchestra del nostro Teatro con grande sobrietà e precisione, riuscendo a coinvolgerla in un clima di intensa e sofferta partecipazione, in particolare durante il primo brano, il Diario di guerra e prigionia di Berto Boccosi, un capitano di fanteria detenuto nei campi di prigionia francesi di Gabès in Tunisia e di Saida in Algeria.
Diario di guerra e prigionia, un ciclo sinfonico composto da dieci brani, dalle spiccate ascendenze stravinskiane, è stato eseguito dalla nostra orchestra con estrema attenzione al clima cupo, desolato che in esso era assolutamente palpabile: la disperazione del prigioniero, la follia della guerra, l'incertezza del domani, il cupo rullare del tamburo nell'ultimo brano, Sul cimitero di El Alamein, il senso della morte onnipresente, lo sguardo umano che non riesce più nemmeno a scorgere il sole, tutti questi dolorosi sentimenti i musicisti sono riusciti a rendere con estrema puntualità, dosando colori, sonorità, pause in maniera davvero egregia.
Un clima più ottocentesco, meno cupo e rassegnato, dominava il dolcissimo Concerto spirituale per violoncello e orchestra di Giuseppe Selmi, arrestato dopo l'8 settembre dai tedeschi e rinchiuso a Tamopol e poi a Sandbostel: il brano ha visto la partecipazione come solista di Francesco Montaruli, violoncellista di spiccata musicalità, dalla cavata possente e dotato di una morbidezza di suono notevolissima, che ha reso con maestria un brano non indegno di figurare anche nei tradizionali programmi di concerto.
Siciliano il terzo compositore in programma: nato a Palazzo Adriano, in provincia di Palermo, Giuseppe Capostagno, diplomatosi in clarinetto al conservatorio di Palermo, partecipò come sottotenente alla guerra d'Africa. Fatto prigioniero dagli inglesi, venne trasferito in India nel Campo di Yol, dove organizzò un'orchestra di musicisti italiani prigionieri. In India scrisse il brano che è stato eseguito, Himalayana, una suite sinfonica per orchestra, vincitrice di un festival musicale a New Dehli, riproposto dalla nostra orchestra per la prima volta in tempi moderni. Una composizione dove le ascendenze orientali si sposano alle suggestioni della musica mediterranea e della canzone napoletana in particolare, sia per il colore orchestrale, sia soprattutto per il riaffiorare qua e là di reminiscenze di alcuni celebri melodie partenopee.
Un concerto raffinatissimo, assolutamente degno di celebrare la Giornata della Memoria, cui purtroppo il pubblico catanese, poco propenso a quel che sembra ad ascoltare musica nuova o almeno non consueta, non ha risposto con l'affluenza che avrebbe meritato.
Giuliana Cutore
28/1/2018
La foto del servizio è di Giacomo Orlando.