Strizzando l'occhio al musical…
L' Opera da tre soldi ovvero Les Misérables. Al Festival di Salisburgo, più che il teatro epico, poté il musical che, come Edmund e Dioniso, è figlio “illegittimo” – condannato e dannatamente corteggiato e amato – del “dio” melodramma.
Del resto, il titolo – relativamente nuovo visto che, nel 1989, ci fu una versione americana con Raul Julia, Richard Harris e Julia Migenes nella parte di Jenny delle Spelonche, che si chiamò proprio con uno dei nomi del protagonista, Mack the Knife – con cui il Festival e più precisamente il curatore della sezione teatrale, Sven-Eric Bechtolf (che con Julian Crouch alle scene firma la regia), il titolo, dunque, mette opportunamente le mani avanti.
Da noi, a Salisburgo, l'Opera da tre soldi si chiama Mackie Messer: Eine Salzburger Dreigroschenoper. Come dire, non cercate l'ortodossia a tutti i costi nella geniale, insuperata creatura di Brecht-Weill, licenziata nel 1928, esattamente duecento anni dopo il debutto di The beggar's opera di John Gay la cui accoglienza dovette essere talmente festosa e fastosa che, a buon diritto si scrisse, all'epoca, nel 1728, che lo spettacolo, al Lincoln's Inn Fields Theatre, diretto da John Rich, aveva reso rich Gay e gay Rich: ricco il primo, non avvezzo a tanto guadagno, felice come una pasqua, il secondo…
In che cosa consiste, allora, il Versuch, l' “esperimento” del Festspiele, a battaglia vinta con la Fondazione Weill e i suoi editori che pare non abbiano preteso anteprime né voluto influenzare in alcun modo la gestazione del nascituro?
È presto detto. Nessuna “audacia” in partitura, né in termini d'arrangiamento né addirittura sul piano di eventuali riscritture con aggiunte o inserti d'alcun tipo. Era ben nota, del resto, l'intransigenza dello stesso Kurt Weill dinanzi alla minima richiesta di modificare alcunché della sua partitura. Non ci riuscì neanche Brecht, nel 1942, quando a Los Angeles gli chiesero una versione della Threepenny Opera che avesse una “nuova funzione sociologica” con una jazz band in scena libera d'improvvisare. “Posso solo immaginare che cosa ne sarebbe della mia musica se andassi incontro ai desideri del teatro – fu la secca risposta di Weill – Non ho mai derogato nel cambiare una virgola dell'originale e non lo farò neanche questa volta”. E neanche dopo la morte di Lotte Lenya, artista, musa, moglie, custode dell'eredità musicale di Weill, la politica cambiò: qualunque fosse l'opera che si decidesse di mettere in scena, essa avrebbe dovuto essere eseguita con orchestrazione ed arrangiamenti originali.
Ma il punto è che puristi musicali ed “esattori” weilliani possono dormire sonni tranquelli ché cambiamenti de facto non ce ne sono. La versione offerta da Martin Lowe – è lui a firmare adattamento e orchestrazione e fu lui ad intestarsi l'operazione ultra pop di Mamma mia! il che la dice già lunga in proposito, l' “esperimento” non poteva certo essere d'élite – non pone affatto prese di posizione né stravolgimenti né trasgressioni d'alcun tipo. Come si fa, del resto, a fare rivoluzione con una pièce che era rivoluzione e tale resta, a quasi un secolo di distanza? Nossignore. Mr. Lowe opta piuttosto per un conciliante ammorbidimento su tutta la linea che da musicale diventa musical e fa volentieri a meno di quella “ruvidità” della Dreigroschenoper che la fece entrare nella leggenda.
Via quelle asperità di canto tanto inebrianti quanto tremende, a tratti, anche per i più esperti dei “cantattori” e delle “cantattrici” – via quella austerità e gravità d'orchestrazione (con generosi supporti di batteria da pop song e non precisamente da song weilliana) che pure non pochi debiti dichiarava, già all'epoca, con il “popolare” jazz. Al loro posto, una linea di canto e di musica, pardon, di musical più abbordabile e, soprattutto, più facilmente consumabile da platee diverse per formazione, gusto, consuetudini d'ascolto.
Sarà questo il caso del pubblico del Festival di Salisburgo, avvezzo, sì, a Mozart ma anche a Nono, Sciarrino, Rihm, per fare giusto qualche nome della neue Musik? Difficile dirlo. Più facile è vedere che questa Dreigroschenoper salisburghese è destinata a passare dritta dritta la ribalta giacché, senza tema di smentita, lo spettacolo non è soltanto prepotentemente godibile ma decisamente ben confezionato, con una robusta corteccia di teatralità prospettata da chi (Bechtolf) conosce a menadito il linguaggio della prestavlenie, avrebbe detto Mejerchol'd, della rappresentazione.
Del resto, se dalla parodia al melodramma italiano che in The beggar's opera faceva Pepusch (che sta a Gay come Weill sta a Brecht) si passò al jazz e al cabaret con Brecht e Weill “ascoltando” il tempo e la storia, perché mai, oggi, quella Dreisgroschenopera non dovrebbe o potrebbe “convertirsi” al musical valendosi dello stesso criterio d'ascoltare il tempo e la storia? La risposta è nel vento, cantava Dylan, non esistono verità, solo soluzioni preferibili. E soprattutto bacchettare in nome del solito adagio, “Chissà che cosa ne avrebbero pensato Brecht e Weill” con la variante che li vede torcersi nella tomba, è quanto di più astorico e grottesco si possa fare dinanzi ad un'opera d'arte che, vivendo di vita propria, è inevitabilmente più avanti dei suoi autori. Quanto a questi ultimi, immaginarli come custodi intransigenti alla Weill può essere un grande errore: abbiamo visto autori (vivi) piegarsi a qualsiasi “profanazione” pur di vedersi rappresentati. È la solita storia del pastore: essere capiti il più possibile e durare il più possibile è il sogno di tutti.
Intanto, l'Oper del Festival tiene banco e piace a molti se non a tutti, grazie agli interpreti – Graham Valentine (in Peachum sembra il magnifico “doppio” di Thernadier dei Miserables, sissignore), Sona Macdonald (e´ una pastosa Spelunkenjenny ma è anche una catturante Moritatsänger, la cantante di strada che intona la celeberrima Ballata di Mackie Messer), Sonja Beisswenger (Polly Peachum), Pascal Von Wroblewsky (la signora Peachum), Sierk Radzej (Brown), Miriam Fussenegger (Lucy), last but not least, il Mackie Messer di Michael Rotschopf. Tutti in parte – più o meno brillantemente, Rotschop non è il primo della classe ma è comunque un convincente, languido criminale – ma complici, tutti, di uno “spettacolone” – calzanti e incalzanti le coreografie di Ann Yee
– a cui non esiteremmo a condurre i nostri studenti, prima o dopo aver loro sottoposto l'originale. Ed è quanto fa il Festival di Salisburgo, che, parallelamente, mette in cartellone per il giorno di Ferragosto anche un'Opera da Tre soldi originale e in versione da concerto diretta da HK Gruber (anche nel ruolo di Peachum) con il Salzburger Bachchor Ensemble Modern e lo stesso Bechtolf in qualità di voce recitante.
Di segni “weill-brechtiani” è comunque cosparsa la scena. A parte la “illustrazione” beffarda di “Quandi denti ha il pescecane…” con proiezioni di pesciacci voraci sulle arcate della Felsenreitschule, elementi scientemente brechtiani sono i pezzi di scenografia composti e ricomposti dagli attori e innalzati a guisa di cartelli brechtiani. E minacciosamente, liricamente “brecht-weilliana” è quell'apertura in cui un attore che sembra essere fatto di polvere di palcoscenico e degli anni,avvia un grammofono perché sia lui a dettare le prime note del Morität che sarà magistralmente interpretato dalla Macdonald, non senza variazioni pop e incedere più vicino a Celine Dion che a Ute Lemper ma di questo s'è già detto.
E con lui si chiude, l'Opera da Tre soldi made in Salisburgo, con il grammofono, segno e sogno d'un tempo perduto ma incombente come quella luna, in alto a sinistra, la cui faccia ha rinunciato a se stessa per lasciar posto all'immagine del vecchio disco che, inesorabile, compie i suoi giri nel Tempo.
Carmelita Celi
17/8/2015
|