Alla meta
di Thomas Bernhard
Esistono due grandi romanzi tedeschi del ‘900 che, ciascuno a suo modo, hanno indagato l'inanità dell'intellettuale dinanzi all'umano, e al contempo le sue ipocrisie, le piccole e le grandi vigliaccherie di una vita solo formalmente votata all'arte, ma che di fatto cela in sé tutte le contraddizioni che nasconde una qualsiasi esistenza, qualunque sia il suo milieu sociale. Se nel Doktor Faustus di Thomas Mann veniva indagata l'insipienza di un musicista dinanzi alla tentazione diabolica, metafora sin troppo scoperta del regime hitleriano, ne Il gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse il protagonista, Joseph Knecht, grande maestro di un Gioco che vorrebbe riassumere in sé tutto lo scibile, si rivela sconfitto dinanzi ad un adolescente un po' triste, la cui resistenza lo mette in crisi al punto da sfidarlo gettandosi in pieno inverno in un lago ghiacciato. Il maestro Knecht muore, e non potrebbe essere altrimenti: muore, sconfitto da quella vita di cui non si dà storia, come diceva Nietzsche.
Micaela Esdra e Rita Abela
A questi due grandi romanzi, come a due tempi di una gigantesca sinfonia, ci ha fatto pensare Alla meta, di Thomas Bernhard, andato in scena al Musco per la stagione 2012-2013 dello Stabile di Catania: un lavoro nettamente diviso in due tempi, apparentemente slegati tra di loro, ma volti ad indagare due diverse finzioni, due varianti della stessa ipocrisia umana. I rapporti familiari e l'arte, simbolicamente rappresentata da un autore di commedie: sullo sfondo di una partenza per la villeggiatura in una casa al mare vissuta come meta agognata (con smanie che nulla hanno della leggerezza goldoniana), si dipana un gioco di inferni familiari dalle pieghe sinuose, pieghe forse costruite ad arte da una madre logorroica, cui fa da contraltare una figlia apparentemente troppo remissiva, la cui unica aspirazione nella vita sembra quella di piegare e riporre indumenti. Donna fattasi dal nulla, giunta alla ricchezza grazie ad un oculato matrimonio con un uomo al quale continua a riservare tutto il suo odio, la madre tiranneggia la figlia, svelando nelle sue parole un vortice di sentimenti ambivalenti, che vanno dall'istinto di protezione per una prole un po' minorata alla bieca tirannia del dispotismo parentale incline a considerare i figli come cambiali da spendere alla fine dell'esistenza: rassegnata, la figlia sembra subire il gioco al massacro, tutta presa com'è da uno scrittore che la madre ha invitato a trascorrere qualche giorno con loro al mare. Terzo incomodo, promessa di un diverso avvenire, evento comunque inatteso, quest'uomo catalizza su di sé ogni aspettativa, anche nello spettatore, pronto ad aspettarsi magari un triangolo erotico, con la rivalità tra figlia e madre che esplode. E invece nulla di tutto questo: nel secondo atto l'uomo si svela per quello che è: di fatto un povero cristo, con una madre sullo stesso modello della protagonista, alla quale fugge da sempre, e che nell'arte, apparentemente, ha trovato una via di fuga alla condanna ad un'esistenza già incanalata nel conformismo borghese. Il problema è che però basta poco per ridurlo ai livelli di un qualsiasi borghese: la prospettiva di qualche giorno al mare, qualche nota al pianoforte, un buon tè, una sciolta conversazione… fino a che, simbolicamente, come Knecht, e come Adrian Leverkühn, viene sconfitto da un fuscello: aiutando la figlia a maneggiare un baule di vimini, che contiene di fatto solo un cappotto da clown, di proprietà dell'avo della madre, cade malamente a terra, non riuscendone a sostenere il peso. Metafora delle promesse illusorie dell'arte, la caduta dell'ospite segna il trionfo della madre, alla quale adesso spettano due vittime: la figlia e lo scrittore. Come a dire che dal labirinto delle falsità umane non si esce e che, per dirla proprio con Bernhard, “ogni cosa è ridicola, se paragonata alla morte”.
Dramma denso, a tratti criptico, Alla meta ha visto protagonista una magnifica Micaela Esdra, nel ruolo della madre: attrice di grande potenza scenica, ha interpretato con estrema lucidità il suo personaggio, riuscendo a far coincidere perfettamente il gesto drammatico alla parola, enfatizzando nelle sue movenze sinuose il carattere tortuoso di una madre carnefice della figlia, ma al tempo stesso vittima di se stessa e di una prole che normale non è, e che come madre sente comunque di dover proteggere (forse anche come un dittatore crede di proteggere il proprio popolo…).
Bravissima anche la giovane Rita Abela, la figlia: la sua recitazione volutamente legata ha fatto emergere le ambiguità del personaggio, come anche l'uso superbo della voce, che riusciva ad evidenziare tratti da automa. Volutamente straniata e gelida l'interpretazione di Giovanni Scacchetti, lo scrittore di teatro, ben a suo agio nel ruolo di spalla della protagonista e di terzo incomodo di un inferno femminile.
Limpida ed essenziale, la regia di Walter Pagliaro ha impresso i giusti tempi alla recitazione, evidenziando nel primo tempo l'aspetto maniacale-ossessivo dei preparativi della villeggiatura, e accelerando nel secondo, sullo sfondo di un gelido e asettico grigio, cupo come il mare d'inverno, che svelava anche una terza inanità: quella delle illusioni umane.
Giuliana Cutore
8/3/2013
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