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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Quando l'opera incontra il cinema

La fanciulla del west al Regio di Torino

Dopo La bohème di ottobre e La rondine a novembre, l'omaggio al Lucchese più famoso del mondo prosegue presso il Regio di Torino con La fanciulla del west a marzo.

Il lavoro fu concepito nel 1907 dopo aver visto una recita di The girl of the golden West di David Belasco (lo stesso autore della Butterfly). Poco dopo venne ridotto a libretto da Carlo Zangarini, coadiuvato in un secondo momento da Guelfo Civinini. La stesura della musica, tuttavia, non iniziò prima dell'estate del 1908, protraendosi per oltre due anni a causa dei ben noti problemi familiari del compositore (gennaio 1909: suicidio di Doria Manfredi). Sia come sia, da una gestazione così lenta nacque un'opera dalla scorrevolezza quasi cinematografica, secondata da un grande successo di pubblico; la critica fu più cauta, ancora incapace di accogliere le novità del linguaggio pucciniano.

Perché di novità vera e propria di deve parlare. Di svolta, addirittura. Ben sei anni separano questa Fanciulla dall'opera precedente, Madama Butterfly (1904). E quando il sipario si sollevò per la prima volta su di essa, al Metropolitan di New York il 10 dicembre 1910, il pubblico conobbe un Puccini molto diverso da quello con cui aveva familiarizzato, addirittura sperimentale: il “cantore delle piccole cose” dalla spigliata immediatezza melodica era quello ormai di un'altra epoca. Di melodico, inteso all'italiana, nella Fanciulla non c'è quasi nulla: è tutto in presa diretta, in tempo reale, con un canto aderentissimo al parlato, tolto qualche slargo lirico; poi, a vederla un po' più da vicino, c'è anche qui il complesso intrico di temi conduttori disseminati e integrati nel tessuto narrativo, temi dal colore locale, com'erano state le campane di Roma per Tosca o le nipponerie per Cio Cio-San, qui ad esempio nel tema “americano” di Jake Wallace. In compenso, se il canto spiegato è parco, vi è una ricchezza, una varietà e una fantasia di orchestrazione, un respiro sinfonico, quale mai la tavolozza pucciniana aveva concepito, e che non per nulla servì da modello a un fine orchestratore come Ravel. Per non parlare di audacie armoniche di assoluta contemporaneità, scale per toni interi alla Debussy, riferimenti a Strauss, ammiccamenti al jazz e al ragtime che gettano le basi per la successiva Rondine … e altro.

A vent'anni esatti dall'ultima ripresa, questa nuova produzione del Regio viene affidata a Valentina Carrasco, che debutta sulla piazza torinese. Il primo atto è interamente ambientato, com'è noto, alla “Polka”: e con fedeltà certosina il saloon di Minnie viene ricreato tutto in legno, con sedie e tavolini davanti e col bancone del bar in fondo, le immancabili mensole di alcolici e un soppalco che fa da primo piano, con altri tavolini dove minatori e cowboy giocano a carte e dove verrà scoperto il gioco truffaldino di Sid. Al secondo atto, la casupola di Minnie, a due piani, è resa con uno spaccato in cui manca tutto il lato prospiciente il pubblico, sì da vederne l'interno. Numerosi anche qui i dettagli dell'arredamento, tutto in legno, dove la tovaglia a quadri bianchi e rossi non potrebbe essere più casalinga e domestica, segno di semplice frugalità. Suggestivo ciò che vi sta attorno, pannelli con una foresta innevata dipinta, ripresa anche al terzo atto: passandovi avanti e dietro, comparse e comprimari danno veramente l'idea di vagare in mezzo agli alberi nel ricercare Johnson. Quando infine viene catturato, all'impiccagione provvedono un cappio, fatto passare su un traliccio metallico in alto, e due cavalli finti. Bello anche il falò attorno a cui i minatori si scaldano a inizio terzo atto.

Ma il fascino di questa produzione non sarebbe completo se non si desse conto del vero tocco di originalità. Già queste scene, di Carles Berga e Peter van Praet – quest'ultimo addetto anche alle luci, che impiega in modo suggestivo e accattivante –, aderiscono perfettamente all'immaginario consacrato dalle foto d'epoca; ma per rendere questa Fanciulla il più possibile “filmica”, Carrasco, già vincitrice dell'Abbiati della critica, trasforma il Regio, con un po' di immaginazione, in un set cinematografico fittizio. Il riferimento è esplicitamente alle pellicole di Sergio Leone, al cui cognome la finta compagnia produttrice si ispira. Si apre la tela e un gringo solitario, nella semioscurità del palcoscenico spoglio, intona uno dei temi sull'armonica a bocca. Subito dopo, la scenografia della “Polka” viene spinta dal fondo verso il golfo mistico, e vi si ferma poco prima. Attorno ad essa le quinte nude e grigie, dove la troupe ha allestito le attrezzature per le riprese (troupe che non disdegna tra l'altro un buon boccone, dato che a un certo punto siede a banchettare). Prima di entrare in scena, i protagonisti passano dal truccatore, sulla destra della “Polka” ricostruita. Lungo la recita, alcuni siparietti contribuiscono alla verosimiglianza, come i battibecchi tra il direttore di produzione e i tecnici, e a volte anche tra tecnici e solisti, che escono dal ruolo di cantanti in costume del cast “vero” del Regio (e che costumi, signori, quelli di Silvia Aymonino, che veste tutti in perfetto stile western, ciascuno con un particolare diverso, tra un sombrero legato sulla schiena, una gruccia e una chitarra!), per rivestire quello degli attori scritturati dalla Leone Films, recitando a gesti: intrigantissimo caso di metateatro cinematografico!

Durante il “film” non mancano di essere evidenziati quei trucchi che scompaiono dietro le macchine da presa per dare origine alla magia del cinema: così, il sangue che cola sulla mano dello sceriffo dalla soffitta di Minnie è fatto da un tecnico a vista che strizza un panno imbevuto di colorante, mentre la tormenta che investe Johnson è resa con neve finta direzionata da un grande ventilatore. Vi è pure lo scoppio di una Colt, di cui il pubblico viene preventivamente avvisato (dovremo attendere la Terza Sinfonia di John Corigliano, del 2004, per avere una vera salva di fucile in orchestra), esploso da un “tecnico” appena fuori dal raggio delle telecamere. Perché sì, ci sono anche due telecamere che inquadrano i momenti salienti in diretta e li proiettano su uno schermo al di sopra del palcoscenico: grazie a questo stratagemma, non una novità nelle regie teatrali (casi pregressi includono Il diluvio universale di Donizetti, Bergamo 2023, per la regia dei MASBEDO, recensito dallo scrivente, e il Rigoletto romano del 2020 par Damiano Michieletto), ma a quanto si sappia mai calato in una realtà fintamente cinematografica, l'unica davvero giustificabile, si ha modo di apprezzare anche le espressioni e il coinvolgimento dei cantanti/attori, come la lunga sequenza di primi piani dei minatori, colti in riflessione durante la lezione di religione di Minnie, con la tenerezza di uno di loro che traccia lettere incerte con un gessetto su una lavagnetta (molto realistico anche il trucco nel rendere i volti stanchi, sporchi e segnati), o l'inquadratura stretta su Larkens scosso dal pianto, in preda alla malinconia. E di questo passo, via al bacio di Minnie e Johnson, inquadrato attraverso una finestra appositamente portata su un carrello, al primo piano della mano di Rance insanguinata, del volto sofferente di Johnson ferito, delle carte durante la partita a poker, della giarrettiera con le carte bare, del volto di Minnie che irrompe in scena pistola alla mano – l'infedeltà al libretto, che prescrive il suo ingresso dividendo Rance e Sonora da una zuffa, è a favore di un bel colpo di scena. Splendida infine la conclusione, col fondale di un assolato sentiero tra le montagne che prende il posto della foresta innevata, smontata in diretta dai tecnici, e i due innamorati che “camminando”, in realtà stando fermi, si “allontanano”. Come in un vero film, a fine opera sullo schermo in alto appeso al boccascena scorrono i titoli di coda, coi nomi dei vari protagonisti e con music by Giacomo Puccini, directed by Francesco Ivan Ciampa.

È infatti affidata a Ciampa la direzione dell'Orchestra e del Coro del Teatro Regio di Torino, la prima nervosa e scattante, e che primeggia al consueto standard di qualità, il secondo, istruito nella sua sola frangia maschile da Ulisse Trabacchin, in grado di raggiungere vertici di realismo impressionanti. Ciampa mantiene una tensione continua lungo l'esecuzione, requisito fondamentale per stare al passo con l'azione scenica senza smorzarne il continuo incalzo, e, pur livellandone diverse, evidenzia a dovere alcune delle numerose timbriche inconsuete, con sorprendenti effetti di trompe l'œil sonoro, anzi, di trompe l'oreille, come nel caso della partita a poker, dove i contrabbassi soli, in pizzicato e divisi, sembrano rintocchi di timpani dalla notevole suspense (i timpani in realtà ci sono, ma usati pochissimo). Si sarebbe voluta qualche sfumatura in più della strabordante inventiva pucciniana, ma non sta qui la debolezza maggiore. Caratteristica già notata altre volte, Ciampa gonfia il suono orchestrale in modo talvolta soverchio rispetto al volume delle voci, creando squilibrio tra una buca già folta di suo (è l'unica volta che Puccini impiega i legni “a quattro”, tanto per dire) e un palcoscenico privo di scenografie in qualche modo “contenitive” del suono, che rimane così libero di espandersi verso l'alto. Ma per un soggetto sanguigno e virile come questo (posto che si possa ancora dire in un'epoca in cui tutto è frainteso…), una direzione altrettanto sanguigna e virile si attaglia piuttosto bene.

Tanto più che i solisti stanno al passo. La Minnie di Jennifer Rowley, ascoltata alla recita di martedì 26/03/2024, è sufficientemente ardita e battagliera da distinguersi, se non come la Minnie della vita, sicuramente come una Minnie di riferimento, dove il lato mascolino prevale su quello languoroso del secondo atto. Vocalmente dà prova di un valido canto di conversazione, che si amalgama bene con lo spesso tessuto orchestrale, con un centro ben dominato e voce di buona proiezione, salvo stimbrature in acuto dove viene talvolta “lanciata”. Probabilmente il ruolo le riesce meglio che alla prima, dove si riferisce una prestazione ancora di molto perfettibile. Momenti di particolare rilievo sono stati per lei gli ariosi Dove eravamo?, ricco di realistica partecipazione, e Laggiù nel Soledad del primo atto, il Finale del terzo, la scena in cui le sue parole convincono i minatori a rilasciare Johnson, anche qui intriso di pathos pregnante, e soprattutto la conclusione del secondo, con acuti assolutamente imperativi e penetranti – tutta la scena della vittoria su Rance, poi, è condotta al calor bianco, complice anche la regia: pian piano le luci si alzano in sala, le telecamere inquadrano Minnie dal basso e illuminano il magnifico lampadario del Regio, che le fa da sfondo: la musica decolla. Una regia che coinvolge nel suo set anche la platea!

Valido anche il Dick Johnson, alias Ramerrez, di Roberto Aronica, voce di tenore timbricamente scura un poco rude ma in grado all'uopo di farsi morbida in Ch'ella mi creda, unico sfogo autenticamente lirico dell'opera. È un Johnson che indugia soprattutto nel patetismo, nel vittimismo di essere un bandito malgré lui in quella terra nondum cognita in cui sembra muoversi a disagio, uno spirito troppo puro per la sordida realtà in cui è calato. O per lo meno è ciò che la sua interpretazione fa trasparire.

A mettergli i bastoni fra le ruote ci pensa il perfido Jack Rance di Gabriele Viviani, ottimo baritono, dal bel timbro brunito e di voce graffiante nel parlato roco, pieno di risentimento da una parte e di beffarda ironia. Credibilissimo nei duetti con la protagonista, nell'arioso Minnie, dalla mia casa son partito, dal fraseggio ben tornito, e molto bravo nel calarsi nella parte, al cui realismo contribuiscono anche espressioni mimiche di indubbia efficacia nei primi piani durante la partita.

Impossibile soffermarsi sullo stuolo di comprimari col dovuto dettaglio. Si accenni però al Nick di Francesco Pittari, cameriere della “Polka”, tenore di voce squillante, talvolta un po' pungente, all'Ashby di Paolo Battaglia, agente della Wells Fargo, basso di grande e bronzea cavata vocale, al Sonora di Filippo Morace, il minatore “buono”, baritono di convincente espressività, e al commovente Gustavo Castillo, baritono caldo e pastoso assolutamente a suo agio nei panni del cantastorie Jake Wallace. Quanto ad Eduardo Martínez, impegnato nel doppio ruolo del minatore Sid e dell'indiano Billy Jackrabbit, le sue rimarchevoli qualità vocali sono state notate ed elogiate da chi scrive recensendo Il piccolo compositore di musica di Mayr al Donizetti di Bergamo nel dicembre dell'anno scorso: baritono poderoso, avrà sicuramente modo di farsi valere più avanti in ruoli di maggior spicco. Come lui, artisti del Regio Ensemble sono anche il convincente Larkens di Tyler Zimmerman, basso, il valido Joe di Enrico Maria Piazza, tenore, e la Wowkle di Ksenia Chubunova, mezzosoprano di ampie capacità, già più volte ascoltata e lodata, qui giocoforza circoscritta in un ruolo che non le rende giustizia ma che il mese prossimo potrà ribadire quanto vale in una prima italiana, The tender Land di Aaron Copland al Piccolo Regio Puccini.

Completano il cast Cristiano Olivieri (Trin, minatore, tenore), Alessio Verna (Bello e Harry, minatori, baritono), Giuseppe Esposito (Happy, minatore, baritono), Adriano Gramigni (José Castro, bandito, basso) e Alejandro Escobar (Postiglione, tenore), quest'ultimo in forze presso il Coro del Regio, in alternanza con Luigi Della Monica nel secondo cast.

Gli applausi fioccano festanti per questa recita, che dimostra di essere gradita sia ai veterani, sia alla frangia più giovane del pubblico, insolitamente rappresentata e piacevolmente coinvolta. Se questa Fanciulla diventasse, più che un film, un DVD, sarebbe la naturale evoluzione del suo destino.

Christian Speranza

2/4/2024