RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Il bisogno di bellezza dell'uomo contemporaneo

Intervista a Simone di Crescenzo

#MissionPaganini è un progetto che vede protagonisti il pianista italiano Simone Di Crescenzo ed il violinista russo Yury Revich. Il progetto coinvolgerà i due artisti nel 2020 in un tour di concerti dedicato alla figura di Nicolò Paganini, nei 200 anni della pubblicazione dei suoi celebri Capricci. L'anteprima del progetto, organizzato in collaborazione con l'Istituto di Cultura di Istanbul, avrà luogo il prossimo 4 ottobre presso il Teatro della Casa d'Italia. In vista di tale importante traguardo abbiamo rivolto al maestro Di Crescenzo alcune domande:

Come mai la scelta di un progetto è avvenuta proprio sul nome di Niccolò Paganini?

Lo scorso anno, in occasione dei 150 anni dalla scomparsa di Gioachino Rossini ho realizzato con Yury Revich una serie di concerti in cui abbiamo eseguito più volte brani di Paganini, ovvero trascrizioni e variazioni del grande violinista su temi tratti da celebri opere di Rossini. Ci siamo trovati molto a nostro agio con questo repertorio e ci siamo divertiti nell'eseguirlo, riscontrando un grande entusiasmo anche da parte del pubblico. Da qui è nata l'idea di dedicare un programma interamente a Paganini. Yury Revich è uno dei più grandi virtuosi dell'ultima generazione e poter eseguire insieme a lui questo repertorio è a dir poco entusiasmante. La scrittura di Paganini è aperta e consente agli esecutori molte possibilità interpretative, di fatto è una traccia in cui campeggia il virtuosismo, una traccia con la quale si può giocare, scherzare e a volte anche gareggiare, stando sempre sul filo come equilibristi.

Lei ha collaborato con tanti cantanti di fama internazionale. Con chi ha lavorato meglio e per quali motivi?

Diversi anni fa, quando ero ancora uno studente, ho avuto il privilegio di incontrare e poi di lavorare con Mirella Freni, una delle più grandi cantanti del ‘900. Da lei ho imparato le basi del canto, il senso di cosa voglia dire realmente ‘accompagnare' una linea melodica, la dedizione e la serietà nei confronti del proprio lavoro e molto altro. Mi ha trasmesso tanto della sua esperienza con alcuni dei più grandi direttori del secolo scorso, dai quali ella stessa aveva appreso. Mirella Freni rimane per me una pietra miliare fondamentale del mio sapere e della mia conoscenza.

Il mio cuore è legato in maniera indissolubile ad un'altra grande artista: Daniela Dessì. Il nostro sodalizio artistico è stato semplicemente magico e i concerti che abbiamo realizzato insieme rimangono impressi nella mia memoria, momenti che ricordo con immensa commozione. La nostra intesa musicale era immediata e totale, un'intesa che si estendeva anche sul piano umano. Daniela era una donna straordinaria, una vera diva, anche nella vita quotidiana, ma nell'accezione più alta e nobile del termine. Il suo carisma, il suo fascino emanavano da ogni suo gesto, anche il più semplice. Amava visceralmente la musica ed il canto, che considerava elementi stessi del suo essere.

Musica sinfonica, lirica e da camera. Quale dei tre generi di musica privilegia? E perché?

Non posso dire di privilegiare un genere piuttosto che l'altro. Ognuno ha le sue peculiarità e per questo ognuno suscita in me grande interesse. Ho sempre apprezzato il repertorio sinfonico fin da bambino, sono cresciuto ascoltando le Sinfonie dei grandi maestri. L'opera è entrata nella mia vita durante l'adolescenza e da allora è stato amore totale. Ma più che di opera forse parlerei di repertorio vocale ad ampio raggio, in quanto la mia vera passione è la voce come strumento utilizzato in tutte le sue potenzialità, quindi dall'opera alla musica da camera. Il repertorio cameristico è forse quello al quale sono più legato per il semplice fatto che è quello che pratico direttamente come pianista. Credo che sia il repertorio che possa rappresentare al meglio il mio modo di essere. Considero la musica da camera un veicolo molto profondo ed efficace di emozioni.

La musica classica nella società contemporanea può avere ancora una funzione sociale oltre che semplicemente "consolatoria"?

Ah, apriamo il vaso di Pandora! La musica classica non solo può, ma deve, e sottolineo deve, avere una funzione sociale nella società contemporanea. Negare il suo valore sarebbe come dire che il Partenone o le Piramidi non siano più degni di essere visitati, o che non valga più la pena fare un giro agli Uffizi o al Louvre. Perché continuiamo a visitare questi luoghi e ad ammirare i capolavori che contengono? Perché l'uomo per sua natura, anche nella società contemporanea dove spesso il ‘brutto' come categoria estetica ha la meglio, ha bisogno di bellezza. Possiamo immergerci nella bellezza solo attraverso le vette più alte dell'Arte e questo vale sia da un punto di vista visivo che uditivo. La musica classica ha quindi in primo luogo una funzione educativa, pedagogica poiché ci insegna a metterci in contatto con il nostro mondo interiore in maniera profonda. Questo determina una crescita personale che porta in molti casi a migliorare l'individuo, ed ecco la sua funzione sociale: migliorando il singolo la società stessa ne trova giovamento. La musica classica ci insegna ad ascoltare, ci insegna il silenzio e la concentrazione, tutti elementi che la nostra società attuale ha ripudiato, costringendoci al rumore costante, a quel mormorio di fondo che non permette mai al cervello di rilassarsi completamente. Mi chiedo molto spesso perché se viaggio su un pullman o se entro in un negozio devo ascoltare solo ed esclusivamente discomusic? Strategie di vendita? Nemmeno tanto furbe…che bello sarebbe poter entrare in un negozio di abbigliamento e poter ascoltare Vivaldi in filodiffusione!

L'interprete musicale, secondo lei, deve essere un semplice riproduttore dell'opera d'arte o anche un ri-creatore?

Per definizione l'interprete è chiamato ad ‘interpretare', ovvero farsi portavoce del pensiero dell'autore e veicolare attraverso la sua arte un messaggio più alto ed universale del semplice dato musicale. Il discorso è molto complesso perché il musicista, in questo caso, deve fare i conti con il fatto che egli stesso è figlio del suo tempo e quindi filtra un pensiero del passato con dei codici contemporanei, che egli ha necessariamente assorbito anche se non in maniera cosciente. Quindi non si può parlare di interpretazione come valore assoluto, ma sempre come valore riferito al tempo in cui l'interprete è immerso. Partendo da questo presupposto di relatività entra poi in gioco una questione morale che non ci consente di fare semplicemente ciò che vogliamo. Riesumando capolavori del passato l'interprete ha il dovere morale di fare tutto quanto è in suo potere per avvicinarsi allo spirito dell'autore, studiando non solo la sua musica ma anche tutto il contesto culturale in cui quella musica veniva fruita. Ho detto spirito e non pensiero perché in questo caso il pensiero non basta: bisogna entrare in empatia con il compositore non solo da un punto di vista mentale, ma in maniera viscerale e quindi direi spirituale.

Faccio un esempio: se mettiamo in scena un'opera di Lully ogni interprete, che sia esso cantante, direttore d'orchestra, musicista, regista, scenografo, costumista, non può esimersi dallo studiare con accuratezza il contesto in qui quell'opera veniva rappresentata, ovvero la corte di Luigi XIV, con tutti gli annessi e connessi che questo comporta, nondimeno il ruolo politico e celebrativo di queste rappresentazioni. L'interprete non può e non deve tradire il codice estetico al quale ciò che egli suona o canta si riferisce. Non posso suonare Scarlatti come se fosse Rimskij-Korsakov. È vero, forse Scarlatti è stato uno dei primi grandi virtuosi della tastiera, ma il virtuosismo stesso va ricondotto al suo tempo, ovvero ad una Napoli dorata di inizio ‘700, dove non svolazzavano calabroni…

La tradizione belcantistica italiana può ancor oggi avere delle prospettive future?

La tradizione belcantistica italiana vive oggi il suo momento di più grande crisi, soppiantata da un mercato estero che diffonde non solo interpreti, ma con essi tradizioni e scuole di canto che con la cultura italiana hanno ben poco a che fare. Fin dal Rinascimento è stato comunque il mercato, nell'arte ma soprattutto nella musica, a dettare le regole del gioco. Oggi il mercato è fondamentalmente in mano alla Germania e alla Russia, e a seguire l'Austria e i paesi asiatici. La realtà è questa, che possa piacere o no a noi italiani. Un giorno Lina Vasta, una delle ultime eredi viventi della scuola italiana del secondo ‘800, durante le nostre edificanti chiacchierate mi disse: “Figlio mio in Italia è rimasto ben poco della nostra grande scuola. Un tempo si parlava del nostro Paese con rispetto… ‘ah, la cantante italiana!', per indicare il massimo livello tecnico e musicale al mondo. Forse in America è sopravvissuto qualcosa, qualche grande insegnante è emigrata e lì ha fondato buone scuole, ma qui abbiamo perso tutto”. In base alla mia esperienza posso confermare quanto afferma Lina Vasta e posso aggiungere, non senza un grande dispiacere, che purtroppo in Italia si sono perse sia le basi tecniche che estetiche del nostro grande passato. Siamo in un momento di tale regresso in cui si è tornati a cantare Rossini come nel Dopoguerra, quando sapevamo poco o nulla del repertorio ‘serio' di questo sommo genio. Per non parlare di Donizetti, che praticamente è stato riannesso ad una prassi esecutiva post-verdiana, dimenticando che le grandi interpreti donizettiane del passato molto spesso disdegnavano addirittura tutto il repertorio successivo e venivano da Mozart e dal ‘700 aulico. In questo quadro alquanto problematico, le prospettive future sono difficili da tracciare, ma ogni epoca ha avuto il sui momenti di distruzione e rinascita. Ciò che mi sento di dire è che per ricostituire una tradizione è necessario prima di tutto rifondare una Scuola. Non possiamo pensare che si possa far rivivere un passato glorioso improvvisando ciò che facciamo o basandoci semplicemente su ciò che i nostri insegnanti ci hanno trasmesso. Quindi la parola d'ordine è: studiare! Bisogna studiare, documentarsi e conoscere per comprendere in maniera profonda. Quando Antonio Canova ha fatto rivivere con le sue mani i fasti scultorei dell'antichità, prima di tutto ha studiato questo passato e ha appreso una serie di tecniche per riprodurlo, senza mai prescindere dall'altra parola chiave, ovvero l'artigianato. Queste due sono le chiavi che forse ci potranno condurre ad un Neoclassicismo del Belcanto italiano.

Giovanni Pasqualino

12/9/2019

La foto del servizio è di Mirco Panaccio.